Mario Perrotta

Sipario

Ogni volta che si nomina la parola “libertà” ho negli occhi l’immagine di quel dipinto di Delacroix conservato al Louvre, dove una donna di nome Marianna col seno scoperto e una bandiera sventolante in mano impersona “la libertà che gui da il popolo” (questo il titolo dell’opera) ponendosi alla testa della Rivoluzione francese. Subito dopo […]

Ogni volta che si nomina la parola “libertà” ho negli occhi l’immagine di quel dipinto di Delacroix conservato al Louvre, dove una donna di nome Marianna col seno scoperto e una bandiera sventolante in mano impersona “la libertà che gui da il popolo” (questo il titolo dell’opera) ponendosi alla testa della Rivoluzione francese. Subito dopo mi viene di cantare quei versi di Bella ciao che chiudono il noto canto popolare italiano dedicato alla Resistenza italiana contro il nazi-fascismo: «È questo il fiore del partigiano/ morto per la libertà!».

Per ciò che mi riguarda sono stati due i momenti in cui ho avvertito la-libertà-di-essere-libero e risalgono entrambe a quando avevo 20 anni. La prima volta è stata quando con jeans, giubbotto di daino e capelli lunghi, camminavo sul Boulevard Saint Germain di Parigi e un vento gelido novembrino si stampava sul mio viso senza farmi pensare a nulla e la seconda quando con una ragazza americana di nome Faith e un amico messinese di nome Nicola (da tempo scomparsi entrambi) salimmo a piedi di notte con le pile accese sul vulcano dello Stromboli e dormimmo a quasi mille metri di altezza, avvolti nei plaid e a debita distanza da “Iddu” (così è chiamato dagli abitanti dell’isola) fra la cenere calda e le lingue di fiamme e lapilli scagliati in alto dal cratere centrale.

Certamente anche Mario Perrotta ha avuto tanti momenti di libertà, risalenti, credo, ai suoi non lontani spettacoli realizzati sulla figura del pittoreLigabue a Gualtieri e dintorni, lì dove il Po accarezza la Bassa Padana; sui migranti che all’alba giungono per mare sulle rive del Salento, associato ad un testo di Lireta Katiaj; sulla trilogia della famiglia (padre, madre, figlio) con la consulenza drammaturgica di Massimo Recalcati. Adesso Mario Perrotta affronta la galassia di Italo Calvino (di cui quest’anno si celebra l’anniversario della sua nascita) scrivendo un testo che odora di poesia che lui interpreta e mette in scena con comprovata esperienza e bravura, in prima nazionale, al Teatro Carcano di Milano il cui titolo è s/Calvino, seguìto dalla parola libertà, una sorta di neologismo, scalvino, che lui scompone e ricompone con la “s” davanti e che tout court assume il significato di scomporre, scalvinare un po’ come scapigliare il suo verbo, senza voler fare uno spettacolo su Calvino, piuttosto sul senso della libertà che ricorre in tutta la sua opera aldilà dei momenti fantastici e realistici. In concreto Perrotta mette insieme il suo bisogno di parlare di libertà con tutto quello che è girato attorno alla fase pandemica, con la gente segregata in casa, libera o non libera di vaccinarsi, certamente limitandone la libertà, soddisfatta solo quando pensa di poter fare tutto ciò che vuole.

All’inizio Perrotta seduto su una piccola pedana con microfono che manipola a suo piacimento sembra una rock star per via d’un giacchino tutto luccicori che gli fascia il busto, mentre echeggiano le note della canzone Il mondo di Jimmy Fontana del 1965 che ci riportano a quei 12 racconti surreali e esilaranti delle Cosmicomiche, risalenti alla prima metà degli anni ’60 tutte intrise di nozioni astronomiche. Ma è un personaggio minore ad attrarre l’attenzione di Perrotta cui lui stesso dà vita entrando e uscendo dalla sua deforme struttura: un nano che il personaggio centrale del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, Amerigo Ormega, scorge ad una finestra, vedendo solo “due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di peluria”, (così lo descrive Calvino, pure lui scrutatore nel 1961 al Cottolengo di Torno). Quegli occhi che guardavano un onorevole democristiano, giunto in quella sezione elettorale per controllare i voti del suo praticello, che non s’accorge neppure che quel povero cristo batte contro il vetro la sua piccola mano per richiamare la sua attenzione. Non si sa cosa avrebbe voluto dirgli, ma insieme a Calvino capiamo che questa piccola figura deforme non ha alcuna possibilità di esercitare la sua libertà, ma tuttavia sarà lui, questa l’intelligente furbata drammaturgica di Perrotta, a scavare all’interno delle opere più significative di Calvino, alla ricerca del senso di libertà, scoprire che noi umani la bistrattiamo, non ne comprendiamo il valore, non sappiamo usarla, per giunta la rifiutiamo, cosa che lui e i suoi compagni non farebbero mai.Ecco dunque Il barone rampante di Cosimo che se ne sta in alto sugli alberi rappresentando il massimo della libertà; Il cavaliere inesistente di Agilulfo è un’anima senza corpo, mentre il suo scudiero Gurdulù è un corpo senza anima, solo zuppe e sesso, Perrotta ce lo restituisce sotto forma di lirico rap, con lo sguardo ai nostri tempi davanti ad un pc o ad uno smartphone, agghindati da cavalieri del web senza macchia e senza paura. Ci vengono incontro Le città invisibili, in particolare la città infelice di Raissa che contiene la città felice che non sa di esistere e ci appare il signor Palomar che davanti ad un seno nudo sulla spiaggia non sa come rapportarsi, denunciando tutta la nostra adeguatezza davanti ad un’immagine naturale. Negli 80 minuti che Perrotta è in scena utilizza tutta la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità che Calvino descrive nelle sue Lezioni americane, chiudendo lo spettacolo tra lunghissimi applausi del pubblico e con le note della canzone dell’inizio, riverso bocconi nella sua postazione, magari pensando di fare un giro sulla galassia e sperando che i tempi dilatati della creazione dell’universo possano aiutare l’essere umano a gestire meglio la sua libertà. Spettacolo da non perdere che girerà prossimamente in varie città italiane.