Come una specie di vertigine

Come una specie di vertiginePermàr, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

«Ciò che colpisce è soprattutto l’abilità compositiva di Perrotta,
una scrittura icastica e una prova attoriale convincente»

Vincenzo Sardelli, Krapp's last post

Ateatro

La libertà del Nano ovvero in viaggio con Italo Calvino

Tra le idee nel cassetto parigino di Italo Calvino, allora membro dell’Oulipo, c’era quella, paradossale, di un Ulisse costretto all’immobilità. Nel suo ultimo spettacolo, Mario Perrotta sembra provare una realizzazione di quell’idea trasformando il potenziale limite letterario in un concreto quanto insidioso limite attorale. E lo fa mettendo in scena il personaggio del nano che compare in una pagina (e in una pagina sola) della Giornata d’uno scrutatore. Il disabile, però, non può muoversi né parlare («i suoi occhi erano solo occhi, senza pensieri dietro», scrive Calvino), perciò è la sua voce interiore a farsi personaggio. Della sua vita nel libro non si dice nulla: Perrotta la inventa e ne attraversa la disperata solitudine. Una solitudine nella quale emergono, come fantasmi in un labirinto psichico, figure e situazioni riconoscibili al lettore di Calvino ma non meramente narrate.

A suo modo il protagonista di Come una specie di vertigine è dunque un Ulisse che dà vita a una Odissea da fermo, a un vertiginoso viaggio interiore, a un immaginario periplo di sé stesso nel corpo a corpo con la scrittura calviniana, senza indulgere a quella “leggerezza” diventata luogo comune quando si parla dell’autore delle Lezioni americane. Il Nano è inchiodato a una sedia, a una smorfia, a una postura. La deformità lo obbliga a un’inquadratura fissa sul mondo. Ha la testa come una lampadina, storce la bocca, piega il collo in modo animalesco per alzare lo sguardo. Sbucato dal Cottolengo in cui è ambientato il romanzo breve (ma di lungo travaglio: pubblicato nel 1963, ha tenuto occupato l’autore per un decennio), diventa il fulcro di un allucinato itinerarium mentis in Calvino che si snoda fra atmosfere e personaggi presi e rimodellati da altre opere dello scrittore per “ragionare di libertà”. Quella libertà che il Nano non possiede e alla quale anela non conoscendone la natura. Perciò è affascinato dal barone rampante, ma non capisce come Cosimo, nella sua risolutezza a mantenere la promessa di restare a vivere per sempre sugli alberi, possa rinunciare perfino all’amore per Viola; riflette con Agilulfo (il Cavaliere inesistente) sulla liberazione dalla gravità della materia; con Qfwfq scopre l’insignificanza del soggetto, dato che anche il vecchio narratore delle Cosmicomiche non è che una voce, una voce-occhio sull’universo; e Palomar lo accompagna nelle più insospettate dimensioni della mente umana.

 

Lo spettacolo si apre con una batteria di fari a terra sparati sul pubblico. La visione del Nano emerge così da un abbaglio anche cognitivo che costringe lo spettatore a rapidi aggiustamenti progressivi, sia visivi sia interpretativi, mentre i tagli di luce sulla faccia modellano la deformità del personaggio. Indossa pantaloni anni Cinquanta (l’epoca della prima visita di Calvino alla Casa della Divina Provvidenza di Torino) e una striminzita giacchetta di paillettes per la sua serata immaginaria, il suo show irreale. L’immagine s’impone inquietante. Anche per questo si accetta subito che l’afasia straziante di questa apparizione grottesca, urlante, spasimante nei suoi sguaiati tentativi di canto sulle note de Il mondo di Jimmy Fontana (cosmicomica melodica) si rovesci come un calzino e diventi voce fluente, sempre agitata e torrenziale, irrefrenabile, ma ora intelligibile. Si entra così nella testa del personaggio, si sta di fronte alla sua anima che dà spettacolo. Inchiodato a una sedia girevole munita di microfono, è circondato dal suo pubblico: davanti gli spettatori reali, dietro gli altri degenti immaginari. Rispetto alla quotidianità dell’istituto, che ha il suo culmine consolatorio nel passaggio all’altezza del suo sguardo del sedere di Suor Antica, il viaggio fantastico del Nano apre a una dimensione liberatoria. Parla veloce, indulge all’iperbole, affabula fino al delirio. Entra ed esce e si perde nel mondo del “signor Calvino Italo”, azzarda collegamenti astrusi, incontri impossibili fra i personaggi, chiosa sarcastico, canta, insiste nervoso, ossessivo, inventa un suo rap. Procede “scalvinando” le opere dello scrittore a suo uso e consumo, come scrive Perrotta nelle note di regia. Ma questa interrogazione serrata delle storie calviniane ha anche l’effetto di rendere meno fredde le pagine dello scrittore e mostra come il lavoro teatrale sul testo letterario possa diventare pratica conoscitiva, analitica, critica. Perrotta costringe i testi a reagire, li scuote con la vitalità esplosiva perché da sempre soffocata nel corpo-gabbia del Nano. Con il quale riesce a farci identificare in quanto siamo tutti prima o poi alle prese con il fardello del corpo, con la prigionia nel contingente. E anche questo vuole ricordarci lo spettacolo, che dalla condanna alla realtà si può sempre evadere attraverso l’arte. Che la libertà è dentro di noi.

 

C’è una tradizione rappresentativa secondo la quale l’attore nasconde sotto la serena partecipazione alle vicende del suo personaggio in scena un’anima dolorosa, preda di una disperazione di cui si nutre il piano visibile del suo lavoro. Perrotta costruisce il suo personaggio al contrario. Si agita nel Nano, sotto la sua disperata deformità, un’energia gioiosa, burlesca, sempre sopra le righe. Qualcosa di primordiale, una naturalità istintiva che può emergere solo nel suo flusso di coscienza incontrollato (controllatissimo dall’attore). Così dal “racconto più pensoso”, come Calvino definì La giornata d’uno scrutatore, emerge e si staglia nella sua autonomia una figura esuberante di pensiero in azione. Dalla sua postazione fissa, il Nano scruta tutto. Vede la sfilata di minorati indotti a votare per la Democrazia Cristiana. Vede anche lo stesso Calvino. Vede che quell’uomo è diverso e che osserva tutto quello che sta accadendo. Diventa il suo sguardo traslato.

 

Fissandolo esteriormente per spalancarne gli abissi interiori, Perrotta fa del Nano un personaggio beckettiano, un nipote plebeo di Murphy, di Molloy, di Malone. Perché anche la sua sagoma – la sua voce – si costruisce intorno a una assenza, a una impossibilità di essere. A differenza dei protagonisti indefiniti dei post-romanzi di Beckett, tuttavia, il Nano non vuole rinunciare, almeno nel suo delirio intestino, a farsi soggetto. Ha una sua identità (anche forte, sgradevole, depravata), sempre immaginata attraverso le vite degli altri (i personaggi calviniani) che sono a loro volta entità immaginarie. Le due dimensioni si confondono, appaiono e svaniscono come proiezioni di un soggetto che sembra sempre sull’orlo della sparizione, del dissolvimento nel fiotto di parole. Ma che resta presente. È una specie di Innominabile, l’estremo non-soggetto di Beckett protagonista tutto sostanza psichica, senza nome e senza azione, dell’ultima straordinaria parte della Trilogia. Ma poi ecco i sussulti di autocoscienza, gli spasmi dell’essere, il debordante, prepotente, sgraziato rigurgito del soggetto. Se per Calvino la negatività assoluta di Beckett si può esorcizzare con l’ironia, Perrotta la contiene nel grottesco. Se Amerigo Ormea, il protagonista della Giornata, è per Calvino «un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco», il Nano di Perrotta è una creazione espressionista. L’attore ne plasma le contorsioni delle membra e della voce, modula al microfono le mille afasiche sfumature di un discorso d’amore per la vita. E quando infine riesce a intonare davvero Il mondo, fa venire i brividi.

la Repubblica

Cento anni dopo la sua nascita, Italo Calvino conquista i palcoscenici italiani che l’hanno finora molto snobbato. Potere degli anniversari. E tra le varie proposte, è da vedere Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà (ma il titolo iniziale era più bello: s/Calvino), che, dopo il Carcano di Milano, è in tournée e dal 17 sarà a Lecce. Lo firma e lo interpreta un attore padrone di sé e dei propri mezzi come Mario Perrotta: in giacchetta di lustrini, immobile (scelta ardita in teatro) in una sedia metallica provvista di microfono, intreccia la storia del nano del Cottolengo da La giornata d’uno scrutatore, al Cosimo del Barone rampante che cerca negli alberi la via di fuga, a Palomar che parla di emozione contro i pregiudizi. Smarginando tra le pagine di Città invisibili, Cosmicomiche, Il cavaliere inesistente in versione rap, si entra nella mitologia calviniana della leggerezza e libertà, consapevoli che tanto il mondo gira, “con la gioia e col dolore” come cantava Jimmy Fontana legittimamente ripescato. Insomma, missione compiuta, anche se con Calvino non è mai facile.

NonSoloCinema

I rapporti tra teatro e letteratura sono sempre stati difficili. Molto spesso la seconda ha prevalso sul primo, rendendo il lavoro scenico un pallido riflesso del libro. Figuriamoci se convocato sul palco è un mostro sacro come Italo Calvino, che quest’anno compirebbe cento anni. Invece stavolta no: questa volta il teatro rende un servizio straordinario alle sue pagine, grazie a Mario Perrotta e al suo Come una specie di vertigine, sottotitolo emblematico Il Nano, Calvino, la libertà, visto a luglio a San Sepolcro all’interno di Kilowatt Festival.

Ed è proprio la parola libertà che offre la chiave di lettura di questo intensissimo spettacolo. La libertà di chi ce l’ha, e spesso stoltamente vi rinuncia, e quella di chi invece non ce l’ha, come il protagonista, che l’autore-regista-attore trae direttamente dalla calviniana Giornata di uno scrutatore: un nano ricoverato al Cottolengo, impossibilitato a parlare e a muoversi ma tutt’altro che impassibile osservatore di tutti i lacerti di realtà che riesce a cogliere dalla sua condizione immobile. È lui a stabilire un confronto con gli spettatori: «Io non sono libero. Voi sì», e questa dialettica cadenza ciclicamente tutto il lavoro. E sempre lui, da quell’angolazione, contempla come un regista cinematografico esperto le piccole parti anatomiche che può scorgere di Suor Antica, l’angelo sexi che lo accudisce e che un giorno, convinta di essere sola (cioè insieme a persone non senzienti, gli ospiti del Cottolengo, che non possono ‘vedere’) gli concede addirittura uno spogliarello imprevisto per fronteggiare la calura. A parlare, nella pièce, è l’anima dolente di questo nano, lei sì libera di andare dove vuole, insieme alle anime dei compagni di sventura e di corsia, i «fratelli guasti», che non compaiono mai in scena ma la cui presenza si fa sempre più palpabile mano a mano che il racconto procede.

Italo Calvino (anzi il Calvino Italo, alla lombarda, perché il protagonista parla in un milanese dinamico che si contrappone alla costretta fissità del suo corpo) entra in modo mimetico, senza disturbare in nessun modo il piano della narrazione. Anzi,. la sua scrittura graffiante e ironica diviene appassionante, quasi commovente, senza che l’autore (nel senso di Perrotta) indulga mai (ma proprio mai) nella retorica e nel pietismo. Così, nei fittissimi ottanta minuti di spettacolo, si passa senza soluzione di continuità dal citato Giorno di uno scrutatore, che dà lo spunto iniziale, al Cosimo del Barone rampante, al Cavaliere inesistente (che nella «Trap di Spirito e corpo» diventa «cavaliere del web») a Raissa, la più infelice delle Città invisibili. Ma naturalmente non possono mancare Le cosmicomiche e le loro galassie lontane e sconosciute, e nemmeno Palomar, un romanzo del 1983, il cui personaggio principale, Palomar appunto, richiama da vicino il cavaliere inesistente Agilulfo, e con la sua ‘incorporeità’ ben si inserisce nel contesto. La cosa più sorprendente è che Calvino entra ed esce dalle parole recitate con un’assoluta e sapiente naturalezza. Non si tratta di citazioni ma di ‘costruzioni’ calviniane filtrate dalla mente ipercinetica e sognante del nano.

Il tutto si rivela una grande operazione di scrittura, che dalla prosa spazia al polimetro, con rime interne ed esterne, accumuli, anafore, giochi verbali, ripetizioni espressive… Una scrittura densa e agile al medesimo tempo, che in scena si plasma nei ritmi sempre diversi che le destina il performer, muovendola e facendola vibrare in termini musicali, scandendo sillaba per sillaba, decantandola, modulandola o divorandola.

Mario Perrotta è bravissimo, fermo in una posizione innaturale, a restituire in scena il potere del suo testo. Dopo la trilogia ‘familiare’ degli ultimi anni, che l’ha visto condividere il palcoscenico con altri attori, ritorna al monologo, forma cui già aveva regalato perle teatrali, due per tutte Italiani cìncali (2003) e la grande epopea per attore solo Milite Ignoto – quindicidiciotto (2015).

A incorniciare tutto pensa Jimmy Fontana e la sua Il mondo, che, dopo aver aperto lo spettacolo presentandoci il protagonista seduto e in paillettes, torna alla fine «mentre la voce pian piano si contorce in un urlo, un bercio, e lui ha le convulsioni di chi quella libertà così abusata da noi ‘normali’ la vorrebbe comunque».

Un lavoro magnifico, da vedere assolutamente.

il manifesto

Mario Perrotta incantatore libera Calvino dalla vulgata
L’omaggio allo scrittore per riflettere sul senso della parola libertà ai nostri giorni

Il fermo immagine elaborato da Mario Perrotta quale tributo al centenario di Italo Calvino, andato in scena al milanese teatro Carcano col titolo s/Calvino o della libertà, è un flash di impervi saliscendi, uno sciabordio notturno che si illumina di continui campi e controcampi, frutto di un lungo lavoro scandito da varie tappe di avvicinamento. Sono le pagine di Calvino ma sono sopratutto le riflessioni, incalzanti e sofferte, che Perrotta, partendo dalla Giornata d’uno scrutatore, insegue sul toboga di cosa significa oggi la parola libertà. Oggi che, seppur in tempi di post pandemia, segregazione, isolamento, costrizione, solitudine non mollano la presa. Sgorga potente dalla voce di Jimmy Fontana (quel Mondo 1965 in pieno boom economico a far da eco alle Cosmicomiche appena uscito per Einaudi) con effetti stereofonici da esorcista incantatore, lì sullo sgabello al centro della scena, un trespolo girevole da cui si intravede il nido del cuculo prima di affrontare le dissonanze schizofreniche di un Nelo Risi o i depistaggi claustrofobici di un Silvano Agosti. Spostando l’asse di gravità narrativa dalla sempre verde aura di leggerezza che circonda Calvino, assaporando il gusto di un fraseggio ritmico e rimato che profuma di «oulipo», fino a farsi jam session in salsa rap trap, Perrotta con quella «esse» smagnetizza e smantella la vulgata sintesi dell’universo calviniano, apre il cuore di tenebra del suo protagonista, l’innocente «nano» prigioniero del Cottolengo, e sprofonda con estro da balera, guitto pirotecnico, nel delirium tremens di una inadeguatezza esistenziale che tutti ci travolge. Inadeguatezza che però non appartiene all’interprete Perrotta, implacabile, crepuscolare, coinvolgente. Ottanta minuti di esercizi di stile che solfeggiano il concerto del nostro sconcerto. In tournée.

Gazzetta di Parma

Calvino interpretato da Perrotta. Emozioni al festival Kilowatt

Lo si era visto come s/Calvino, spettacolo potente, una struttura drammaturgica perfetta, travolgente, un grumo di emozioni che continua a pulsare nel tempo, opera di/con Mario Perrotta. Lo si è rivisto a Kilowatt, il festival di Sansepolcro con un nuovo titolo, «Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà», sembrando la prima scelta poco compresa, un «s» quasi come opposizione al grande, amatissimo autore di cui ricorrono i cento anni dalla nascita. Lo spettacolo, fortunatamente intatto, ugualmente vorticoso: un breve frammento del racconto «La giornata di uno scrutatore» si dilata, con un personaggio minore, quel nano che al Cottolengo incrocia lo sguardo dell’onorevole in visita il giorno delle elezioni, che, liberò per quell’ora di teatro, la giacca luminosa, può prendere la parola, sintesi di molteplici sofferenze, tante in quel luogo, spastico, deforme, solo versi dalla sua bocca impossibile da guidare, ma che per magia, solo bloccato su una sedia, può finalmente svelare i suoi pensieri, suoi e di quella comunità su cui scorre appena uno sguardo di superficie. Così d’abitudine. Il pubblico di Parma può segnare subito la data del 3 febbraio: «Come una specie di vertigine» è in calendario a Ragazzola per la prossima stagione, 23/24, sempre scelti con cura, sensibilità teatrale, gli spettacoli da Roberto Oddi.

Hystrio

Il racconto del nano, un’ode alla libertà per rendere omaggio a Calvino

Giacca scintillante di paillettes, quattro fari che accecano il pubblico, un microfono ad asta e una scheletrica sedia girevole di metallo: quattro elementi, in parte antitetici, costruiscono l’intelaiatura del monologo con cui Mario Perrotta si inoltra nel corpus dei romanzi di Italo Calvino, scavando un sentiero affatto personale e, nondimeno, indiscutibilmente fedele.

 

L’attore-autore sceglie di aderire al punto di vista di un personaggio minore, una comparsa ne La giornata di uno scrutatore, uno dei tanti sfortunati ospiti del Cottolengo di Torino rinchiusi per sempre in quella bolla di vetro certo protettiva e, tuttavia, irrimediabilmente castrante. Ecco, dunque, che Perrotta decide di offrire a quel nano la libertà – da qui anche il sottotitolo – che il destino gli ha negato, tramutandolo in una sorta di eclettico entertainer, capace di inanellare senza reale soluzione di continuità monologo e contemporaneo melologo, flusso di coscienza e ripresa di passi tratti da altri romanzi di Calvino. Il narratore-entertainer alterna il racconto della vita al Cottolengo e il vagheggiamento di un amore impossibile per una suora – probabilmente l’unica categoria di donna conosciuta – con l’evocazione di personaggi quale il barone rampante Cosimo ovvero il solitario Palomar a passeggio sulla spiaggia; o, ancora, episodi tratti dalle Cosmicomiche e dalle Città invisibili.

 

Il drammaturgo Perrotta è abile nel comporre materiali multiformi in un’unità salda, ben trattenuta dal filo rosso di uno sperimentalismo linguistico rigoroso e mai velleitario che quello scrittore “scientifico” che era Calvino avrebbe sicuramente approvato. Così come avrebbe condiviso l’altro tema unificante, ossia quell’anelito alla libertà, che è in primo luogo possibilità reale di essere fino in fondo ciò che si è, dalla cui volontà di analisi è mossa la ricerca di Perrotta. E il lavoro dell’autore si traduce scenicamente nella sciolta e nondimeno rigorosissima versatilità dell’attore: la cadenza vagamente lombarda nei monologhi, la disinvolta spavalderia dei melologhi-rap e la coinvolta struggenza nell’interpretazione finale de Il mondo di Jimmy Fontana, canzone-totem di uno spettacolo armoniosamente forsennato e puntigliosamente sincero.

Krapp's last post

«Gira, il mondo gira / Nello spazio senza fine / Con gli amori appena nati / Con gli amori già finiti / Con la gioia e col dolore / Della gente come me».Una partitura musicale improntata alla leggerezza permea “S/Calvino, o della libertà”, presentato in prima nazionale al Teatro Carcano di Milano, punto d’approdo di un percorso avviato lo scorso anno dal premio Ubu Mario Perrotta.“Il mondo”, signature song di Jimmy Fontana, sigilla lo spettacolo all’inizio e alla fine.

Su una scena minimalista, un uomo con delle difficoltà fisiche: è seduto, anchilosato su una sedia, con i segmenti di un microfono che paiono avvitarsi intorno al suo corpo. I riflettori sotto i suoi piedi creano l’atmosfera sopita di un piano bar.Restare fermi, eppure avvertire un senso di vertigine. E infatti, come una conversione sulla via di Damasco, dalla prossima estate lo spettacolo cambierà titolo: si chiamerà proprio “Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà”, ci anticipa lo stesso Perrotta.

«La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare» diceva Piero Calamandrei. Bisogna saperla respirare. E Italo Calvino, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, rappresenta il respiro della letteratura sulle storture e sulle angustie del mondo contemporaneo. Calvino, ovvero la leggerezza, l’immaginazione trasognata, il volo della razionalità sul fanatismo; la modernità sospesa tra sogno e ragione, da vivere ad occhi aperti.

“Le cosmocomiche”, “Le città invisibili”, “Palomar”, “Il barone rampante”, “Il cavaliere inesistente”; infine, “Lezioni americane”: sono queste le coordinate di Perrotta, i libri da cui parte per scardinare l’universo di Calvino e accedervi. Ma c’è bisogno dei suoi valori per comprendere anche la nostra epoca sgualcita da lockdown, guerre, egoismi, drammi come quello dei profughi. Tuttavia è “La giornata di uno scrutatore” a dare l’abbrivo allo spettacolo. Pubblicato nel 1963, il romanzo segnò una svolta nella poetica di Calvino. Egli abbandonò molte certezze che lo avevano sostenuto, in particolare la fiducia nel progresso e nella centralità della politica.La genesi del romanzo sta nella duplice esperienza di Calvino al seggio presso il Cottolengo di Torino (istituto religioso di carità per malati con gravi disabilità e malformazioni) prima come candidato alle elezioni del ‘53, in seguito come scrutatore. Calvino ne uscì modificato, e decise di scriverne. Il termine scrutatore si estendeva al campo metafisico dell’indagine sull’uomo e sull’universo. Ne nacque un viaggio interiore dentro l’umanità degradata e dolente, a contatto con handicap e sofferenze. Ed è ciò che troviamo in scena: la crisi della stessa idea di uomo nata dall’umanesimo e dall’illuminismo; la sconfessione dell’uomo razionale, artefice del proprio destino.Che cosa definisce allora il romanzo? Non la ragione, ma l’amore con cui Calvino osserva un padre che accoglie il figlio disabile rendendolo pienamente persona tra gli uomini.

Perrotta compare in scena con un blazer lustrato. Sciancato come un crocifisso contemporaneo, il suo personaggio riversa sulla platea un effluvio di parole biascicate, dipanate, liberate. Ottanta minuti di versi, note, rime, assonanze, parabole e iperboli, paronomasie e metafore, che proiettano il pubblico nell’infinito fantasmagorico di Calvino. Ritroviamo il Perrotta plurilinguista, affrancato e anticonvenzionale, di lavori come “Odissea”, “Un bès”, “Italiani cìncali”. I prodromi di questo lavoro risalgono a “Libertà rampanti – Indagine a tre voci sul concetto di libertà”, progetto con Sara Chiappori e Vito Mancuso presentato in Salento la scorsa estate. E di questo si va in cerca: di una libertà che è anzitutto inchiesta esistenziale e riconoscimento degli spazi altrui. Al centro, un uomo limitato nel fisico e nella mente. È la somma di tutti gli ossimori. In quanto personaggio calviniano, egli possiede un grimaldello per scoperchiare il mondo letterario dello scrittore. Incontriamo Cosimo del “Barone rampante”, che a soli 12 anni sale su un albero, rinuncia all’amore e diventa pazzo. Una canzone di spirito e corpo fra trap sincopato e rap introduce “Il cavaliere inesistente”, anima immateriale che stigmatizza le derive edonistiche della nostra epoca. Ci sono poi “Le cosmicomiche”, con la speranza che gli spazi dilatati dell’universo possano aiutare l’uomo a gestire meglio la libertà. E ancora “Le città invisibili”, con la difficoltà di riconoscere la felicità. Infine “Palomar”, e il senso d’inadeguatezza di fronte alla bellezza.

Ciò che però colpisce in questo lavoro è soprattutto l’abilità compositiva di Perrotta, con i dettami delle “Lezioni americane” materializzati attraverso una scrittura icastica e una prova attoriale convincente. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sono i riferimenti di un testo incalzante, veloce, immediato. Nessun indugio, nessun orpello. Il segreto della narrazione sta nell’economia del racconto: frasi e trame puntiformi, segmenti rettilinei, e un movimento serrato.Perrotta definisce l’incantesimo dei tempi narrativi calviniani anche facendo ricorso ad anafore ed epistrofi. La ripetizione contribuisce alla chiarezza. Conferisce alla narrazione il valore della ritualità. La concisione rende il massimo d’efficacia narrativa e di suggestione poetica. Perrotta adotta un ritmo appropriato ai personaggi e alle azioni: sinteticità e concentrazione, rapidità e scioltezza.

Le immagini s’interiorizzano nello spettatore attraverso l’interpretazione scenica. Perrotta tratteggia le azioni come se si svolgessero realmente davanti ai nostri occhi. Poi definisce i personaggi, con costruzioni mentali vive e legate alla nostra esperienza. “S/Calvino o della libertà” diventa «un’interfaccia sottile tra il lettore e altri mondi di parole, un invito al viaggio di cui non si conosce mai la destinazione» (“Lezioni americane”).

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Perrotta e i suoi personaggi ispirati da Calvino

È certo che Mario Perrotta non abbia mai scelto strade comode per i suoi allestimenti e, dopo una serie di spettacoli a più voci ispirati al tema della famiglia, torna al monologo in Come una specie di vertigine, interpretazione solitaria ispirata nella drammaturgia a una serie di letture e attraversamenti dell’opera di Italo Calvino.

L’operazione scenica inizia con una vera e propria trasformazione: parte Il mondo di Jimmy Fontana, una vecchia traccia super pop della fine del secolo scorso (che impressione fa dirlo), mentre vediamo in controluce un uomo seduto dentro una struttura di ferro; man mano che la luce lo illumina, si modifica il sembiante fisico di quest’uomo incastrato sulla pedana sormontata da una sedia girevole, che assomiglia quasi a quella di un dentista o di un barbiere vintage. L’attore emerge dal buio con una giacca di paillettes e si trasforma progressivamente in una persona affetta da disabilità motoria. Accenna movimenti spastici con il corpo, per poi liberare un’identità sciolta, libera da costrizioni.

Vediamo questa trasformazione lenta, ma progressiva e inesorabile, esattamente come la malattia che coinvolge e trafigge chi ne viene affetto. Si tratta di un percorso simile a quello del film Risvegli di Penny Marshall, in cui persone ammalate e immobili riprendono a vivere quasi normalmente. E così succede anche in questo caso, come nella sceneggiatura ispirata al celebre libro omonimo del neurologo Oliver Sacks.
Si tratterà di una parentesi, di qualcosa che accade, per poi far ripiombare l’esistenza dentro il buio inesorabile della malattia degenerativa. In questo spazio temporale, della durata di circa un’ora, il risveglio restituisce la parola, che torna sulla bocca di chi non l’ha potuta avere per anni.

Gli spettatori diventano dunque depositari di una sorta di confessione flash, un racconto che spazia fra l’onirico, il letterario e il reale, per impastare un amalgama drammaturgico che fonde, in particolare, due piani: il piano del malato e di una biografia del dolore, ambientata, per lo più, dentro la sua casa di ricovero, nel suo rapporto con gli altri individui, che in quello stesso luogo sono accolti, anche se a volte verrebbe da pensare quasi detenuti.

L’altro è un piano onirico-letterario in cui Perrotta prova a portare il racconto, le fantasie, fuori da questa gabbia strettissima e insormontabile dell’esistenza reclusa nello spazio di una stanza o poco più, e si affida a una reinterpretazione personale di alcune tematiche affrontate da Calvino in diversi suoi libri, per creare una sorta di vapore di pensiero, capace di non schiacciare le vicissitudini dentro il contingente, ma di prenderle a spunto per creare degli universali. Alcuni rimandi sono più diretti e precisi, altri si vanno puntualizzando nel rapporto delle repliche con il pubblico, che come sempre nelle recite restituisce un respiro capace di far comprendere l’adesione e la prossimità fra il respiro della platea e quello della scena.

Si alternano, così, anche due registri verbali: quello nella casa di ricovero con cui l’uomo descrive la sua vita, con cui si rivolge agli altri malati e con cui racconta la sua esistenza: un registro a volte finanche crudele, molto poco politically correct.

Qui Perrotta prosegue un suo personale percorso nel portare in scena quello che le persone pensano e non dicono, trasferendo sul palco il tema dell’indicibile. Si genera una cifra verbale caustica e urticante, aumentata dalla presenza di una figura femminile verso la quale si riversano forme strane di desiderio di questo uomo malato e immobile: una presenza di chiesa, una suora, suor Antica, un nome che sa quasi di testo manzoniano. Ma proprio come la monaca di Monza, il personaggio diventa entità carnalissima, oggetto della cupidigia di questi uomini, che non vedono altra presenza, altro corpo che possa diventare catalizzatore di desiderio, costretti come sono all’immobilità.

È come se, di colpo, si aprisse uno squarcio su un mondo indolente e di eterna pena, dove la privazione del desiderio, della dinamica sentimentale, ma anche di quella fisica del piacere, diventa emblema di una schiavitù, che la condanna della natura alla malattia costringe i malati a dover sopportare.
Queste vicende vengono rilette, poi, con un secondo registro, che si ricama dentro le suggestioni dell’opera dello scrittore italiano con cui l’opera teatrale è in qualche modo in dialogo, riferendosi a questa o quella forma di amore descritta da Calvino, a questo a quella forma di viaggio chissà dove nell’universo, al Barone Rampante, a Le Cosmicomiche o a La giornata d’uno scrutatore, libro quest’ultimo che ha ispirato la figura protagonista dello spettacolo, e presente in poche righe appena accennate.
La vita, alienata e mai comunicata e/o comunicante dell’individuo, diventa metafora esistenziale di quella parte che in ognuno di noi vive, ed è costretta a subire, a limitarsi, chiusa nel suo impossibile da dire, sanzionata dal pensiero sociale dominante.

Lo spettacolo di Perrotta affidato, come sempre, a una sua interpretazione generosa e naturalmente viva, ha la caratteristica di continuare nella ricerca sulla complessità della psiche umana, filone che l’artista di origini salentine e da molti anni ormai in Emilia, ha attraversato nell’ultimo quinquennio della sua Trilogia della famiglia. Un filo che collega questo lavoro ai tre precedenti è forse il tema dei non detti: mentre le relazioni familiari sono tutte bloccate da cose non dette, ma che stanno dentro il cemento della struttura sociale, qui il non detto viene dall’impossibilità di una vera comunicazione, dal blocco che la malattia degenerativa impone a chi ne è vittima.Un silenzio, una immobilità, un buio che a tratti sentiamo causticamente arrivarci addosso: immaginiamo il dolore di questa esistenza inchiodata al letto in attesa di qualcuno che arrivi ad asciugare il filo di bava che scorre al lato della bocca, a nutrire, a pulire.Si è costretti a immaginarsi in quella condizione di assoluta dipendenza e fragilità, a immaginare cosa sarebbe di noi se anche noi fossimo così, se toccasse anche a noi. Si è costretti a immedesimarsi in quei pensieri che incorporano un desiderio di vita, ma anche un rancore per il destino immutabile, irreversibile, una drammatica cattiveria verso l’esistere. Sotto questo profilo lo spettacolo, nella sua sostanziale “scorrettezza poetica”, ha questa forza: ci lega alla barella e ci porta dentro una alienazione.

Stratagemmi

s/Calvino o della libertà

Fiori per Algernon è un racconto di fantascienza di Daniel Keyes, pubblicato nel 1959, trasposto poi in romanzo (1966) e in film (I due mondi di Charly, 1968): narra in forma di diario l’esperimento scientifico a cui si sottopone Charlie, affetto da grave deficit mentale (in parallelo al topo Algernon), per sviluppare le proprie capacità mentali. L’esperimento ha successo, Charlie acquisisce una consapevolezza e una maturità a lui ignote, ma l’uomo e il topo sono accomunati dallo stesso destino – perdere del tutto le capacità mentali – come Charlie intuisce e poi testimonia nelle ultime strazianti pagine. Il racconto è magistrale per come descrive l’esperienza emotiva e affettiva di una persona dai processi intellettivi diversi dal comune, eppure a loro modo unici e preziosi: lo sottolinea Diego Lanza in un libro ormai ‘classico’ del 1997, Lo stolto, da leggere e rileggere (per citare il Calvino di Perché leggere i classici), e per fortuna ristampato nel 2020 da Petite Plaisance. Accanto a Charlie vi trovano posto personaggi come Gurdulù (Il cavaliere inesistente) e tanti ‘sciocchi’ delle fiabe (come quelle raccolte da Calvino), capaci di guardare il mondo in modo diverso, e raccontarcelo senza filtri, né finzioni, con ‘verità’. Questi stessi tratti distintivi caratterizzano il personaggio, tratto da Calvino, a cui dà corpo, anima e voce sul palco Mario Perrotta nello spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Carcano di Milano, s/Calvino, o della libertà: frutto di un lungo lavoro sul grande scrittore (di cui si celebra ora il centenario della nascita) scandito da varie tappe di avvicinamento.

Come Keyes, anche Perrotta sul palco dà voce magistralmente a uno ‘stolto’, in un monologo interiore in prima persona dalla struttura circolare, ad anello: parte dalle soglie della demenza per arrivare alle più alte forme di espressione, poi ripiomba nel buio di una totale afasia e immobilità. Perrotta trae spunto da La giornata di uno scrutatore, concepito e ambientato da Calvino il 7 giugno 1953, all’Istituto Cottolengo di Torino, tra i malati di mente che gli suscitano un’impressione fortissima (ci metterà dieci anni a scriverlo). Tra i pazienti del Cottolengo, ritratti nel libro, Perrotta ne sceglie uno, disabile e ‘nano’ (o meglio ‘diversamente abile’, ‘affetto da nanismo’, chiosa. E aggiunge «Se non c’è cattiveria in chi lo pronuncia – e in chi m’ha dipinto così di cattiveria non ce n’era, anzi – allora mi piace: Nano!». Come non pensare a chi oggi censura i classici in nome del politically correct: dopo Omero e Dahl toccherà anche a Calvino?). Perennemente intrappolato dentro un corpo inerte, incapace di muoversi e di esprimersi, il Nano domina il palco da una sedia, elevata su una struttura metallica (non c’è nient’altro in scena). Lo spettacolo si apre e si chiude, come una parentesi, con un lampo accecante di fari puntati su noi spettatori, sulle note di un ‘classico’ di Jimmy Fontana (Il mondo, 1965). A inizio spettacolo cerca di cantarla, il nostro protagonista: maschera muta, immobile, con occhi e bocca spalancati, il corpo bloccato in uno spasmo innaturale. Pian piano con spasmodica lentezza si anima, afferra il microfono, trova la voce. Canta. Oltre a conquistare lo spazio che l’autore («Il Calvino Italo») non gli ha concesso, al di là della pagina originale, si prende anche le libertà che la vita non gli ha dato, la capacità di muoversi, esprimersi, amare. E tramite lui affiorano dal testo le parole di Calvino, i suoi personaggi, pensieri, riflessioni, emozioni, gli amori ‘impossibili’ o quantomeno ‘difficili’, per citare un altro suo capolavoro (Gli amori difficili, 1958). Perrotta dà il meglio di sé cantando gli amori mancati, sfiorati, sognati, perduti o mai consumati. Come quello del protagonista per Suor Antica, che si occupa di lui, ma non lo sente, non lo guarda, non lo vede, o come quello di Cosimo per Viola (Il Barone Rampante, 1957). Il Nano e il Barone si guardano, in un passaggio-chiave: «Io non sono libero. E Suor Antica non sospetta proprio… Mi guarda e non mi vede. Potessi parlare, dire due cose, tanto per chiarire che sono qui, anche due cose minime… una! – guarda – una sola frase perché non ci sia equivoco che esisto, che penso, che sento; una ma lapidaria: non le voglio le lumache! Ah, ah. Come il Cosimo! Anche io, quando arriva la broda a papparella, tac, mi armo di lessico all’improvviso e grido: non la voglio la papparella! Sai che scompiglio… (considera) Il Cosimo… Nella testa del Calvino siamo nati quasi coetanei… Lui però è stata ‘na botta. “Non le voglio le lumache!”. Una rivoluzione! Che invidia. Poterlo fare io. Però il Cosimo l’ha fatto un po’ per tutti, eh? Tutti i ragazzetti del mondo in coro “Non le voglio le lumache”… Quantomeno l’ha fatto per me e per tutti gli impossibilitati all’eloquio qui dentro!»

Il Barone, visto dal Nano, riprende vita come simbolo di libertà, di ribellione, di tutto quello che in molti possono solo immaginare, rinchiusi nell’ospedale, nel loro stesso corpo, nella mente o altrove (e qui ripensiamo al lockdown). Costretti a guardare, muti, il mondo di ‘fuori’, sognando la libertà, la felicità, l’amore, senza riuscire a trovarli, a goderli, a conservarli: come Cosimo, che si autoconfina sugli alberi, suo regno e sua prigione (agli occhi del nostro anonimo protagonista) e non vi rinuncia neppure per amore, sacrificando la sua felicità mentre Perrotta, in un accorato appello, lo incita a seguire la donna della sua vita. Invano. «Noooo! Cosimo! Nooo! Cosa fai? Lasci andare?! Scendi da questi alberi, Cosimo! Va bene! Bello il mondo visto dall’alto, bello guardare con distacco, bello volare alto sulle cose del mondo, però poi la vita è qui giù, la carne, la passione, il culo di Venere! Sei tu che l’hai ostentato, sei tu che ce ne hai fatto innamorare, tutti! E ora lo guardi che si eclissa e non fai niente? Oh, altezzoso! Guarda che non sono più lumache! Qui si rischia, qui c’è il precipizio! Sai dov’è che arriva l’umano? Dove arriva l’amore! Senza quello che fai lì? Niente. Mi ha dato di matto il Cosimo, come l’Orlando, il furioso. Ha pianto che lui solo sa quanto, ha divelto rami e rami e scorticato tronchi interi, ha attaccato a scrivere Viola su tutti gli alberi del suo regno, come un adolescente qualunque. Ma scendi, no!»

I testi di Calvino (compresi Il cavaliere inesistente, Le cosmicomiche, Le città invisibili, Palomar) sono rielaborati e metabolizzati in forma poetica, spesso in rima, col ritmo di una ballad o di un pezzo trap: acquistano nuovo senso, ci appaiono a tratti profetici, ci parlano di noi, oggi, dei social, degli schermi, del contrasto tra essere e apparire, tra ‘dentro’ e ‘fuori’. «Eh, ridi ridi, te che il collo (ballìcchia dondolando il collo), ce l’hai sempre a disposizione… giri di qua, giri di là, guardi quel che credi, ma, appunto, non vedi. Scorri ma non scorgi. Osservi ma non contempli. Miri ma non ammiri. Assisti ma non interpreti. Trascorri ma trascuri. Registri ma non penetri (…)
Perrotta ci guarda, ci chiama direttamente in causa, mentre scattano i flash:
Il Calvino osserva le foto di tutti: quelle dei volti del lì fuori e quelle dei volti del qui dentro e cosa dice? (…) Dice che, noi dementi totali e le suore, nelle foto siamo… (…) beati. “Felici e fotogenici”. Provvisti di una evidente beatitudine (indicando il pubblico) Mentre di loro cos’è, che dice (…) Le foto dei loro documenti: uno strazio! Guarda: track! (flash degli accecatori sulla platea) Ecco! Guarda, guarda! Occhi sbarrati, lineamenti gonfi, “un sorriso che non lega” dice, un sorriso che non lega… (…) Track! (flash degli accecatori sulla platea) Guarda Agostino! (parla ai compagni) Avete visto? La nevrosi… L’impazienza che prefigura la morte nelle foto dei vivi.»

Ci vediamo con altri occhi. I suoi. Sentiamo tutto il peso del silenzio che l’opprime, a cui è costretto a tornare quando lo spettacolo si chiude come si è aperto: con la canzone di Jimmy Fontana, ora cantata da Perrotta, sommessamente, come un blues di sublime e struggente malinconia. Ma noi non siamo più gli stessi.

Teatro e Critica

Il palco spoglio è tutto ciò di cui Mario Perrotta ha bisogno. Vi si siede al centro con una struttura che regge un microfono, su di una postazione di immobile fissità. Luogo trasformativo però, perché spazio dello sdoppiamento (tra attore-autore-caratteri) dove prendono continuamente vita i personaggi di Calvino da “una trilogia sul come realizzarsi esseri umani, tre gradi di approccio alla libertà”. E di libertà si tratta, quando a parlare è un uomo imprigionato in un corpo con disfunzioni espressive e di movimento (estrapolato dai passi de La giornata di uno scrutatore). Perrotta lo chiama nano, affetto da nanismo, diversamente abile, veste abiti luccicanti e non si sposta dalla sedia su cui è saldamente bloccato. Il suo corpo si agita di fronte al pubblico, genera dei forti spasmi, l’afasia lo porta invece a riprodurre suoni lontani, incomprensibili, sospesi a metà tra il detto e non-detto. “Io non sono libero”, confessa poi. Ma quest’affermazione è una cerniera d’apertura, accecante come l’intensità della luce che ci fa chiudere gli occhi pur di non reggerne il confronto, perché raccoglie in sé una spinta vigorosa, una verità taciuta che è motore del racconto di un viaggio personalissimo nell’universo di Italo Calvino. Qui, ancora niente è perduto e il testo del regista si rivela essere una ricerca nostalgica, attenta e fedele nei sentimenti, che trova un’ancora salda ed evocativa nella capacità interpretativa, spaziando dal racconto al canto ai versi rap. Perrotta si addentra così nelle trame calviniane e agisce su di esse come un ricamatore, aggiunge dettagli, intensifica passioni ed estrae delle riflessioni sul valore dell’autodeterminazione e sulla questione dell’alterità, per recuperare infine la meraviglia, quella delle città invisibili, le possibilità metamorfiche dell’armatura vuota di Agilulfo e il silenzio disincantato di Palomar. E la febbrile disobbedienza di Cosimo, Cosimo che rifiuta le lumache, Cosimo che vive sugli alberi, Cosimo che ancora s’innamora.

Exibart

Nel mondo di Italo Calvino, con libertà: la pièce di Mario Perrotta debutta a Milano

Al Teatro Carcano di Milano, Mario Perrotta muove le corde dei personaggi di Italo Calvino, dal Barone Rampante a Palomar, intrecciando storie di umanissima sostanza.
È la parola “libertà” alla quale dare voce. E a muovere l’animo, la mente, i gesti di Mario Perrotta regalandoci un ammaliante, immaginifico, appassionato viaggio interiore tra le parole “in libertà” di Italo Calvino, prese in prestito per un componimento originale dello stesso attore pugliese. Lo spettacolo “Come una specie di vertigine. Il nano, Calvino, la libertà”, ha la sua originalità nell’intrecciare con leggerezza e profondità storie di umanissima sostanza dentro il racconto di un solo uomo, di nome Nano, che «Tra i tanti abitanti delle pagine dei romanzi di Calvino – scrive Perrotta -, è quello meno libero: ha un corpo, una lingua e una mente che non rispondono alla sua urgenza di dire, di agire».
Dalla sua postazione fissa – bloccato su una sedia e con accanto un microfono – si apre un mondo: quel mondo che “…gira nello spazio senza fine, con gli amori appena nati, con gli amori già finiti, con la gioia e col dolore della gente come me” che la celebre canzone di Jimmy Fontana evoca, e che egli, inseguendo il brano musicale, cerca disperatamente di cantare contorcendo la bocca. Dall’iniziale scompostezza il suo corpo deforme progressivamente si ricomporrà assumendo una postura misurata e riacquistando la voce per cantare.
Con questo inizio di spettacolo, Perrotta, collocato sopra una pedana con dei fari a tratti puntati verso la platea, ci presenta il suo personaggio, il nano, raccontato nel romanzo autobiografico di Calvino “La giornata d’uno scrutatore”. Fissando il pubblico e rivolgendosi a dei singoli spettatori comincerà a parlare. E non ci lascerà più col suo sguardo, col suo indicarci e coinvolgerci e provocarci – «Io non sono libero… voi si!» – con domande sulla libertà mai compresa nel suo valore, facendoci entrare nel suo fantasioso e realistico mondo a più voci, in quello spazio circoscritto, luogo di cura (il Cottolengo di Torino) che comprende i suoi compagni di corsia interpellati con amorevolezza, e ai quali guarda girando il viso a destra e a sinistra, e con un lieve piegamento del busto all’indietro.
Conferendo spirito e carne al personaggio che, nonostante tutto, non sarà mai intenzionato a «Rassegnare le dimissioni dall’ottimismo», né ad abbandonare un’impossibile storia d’amore nel frattempo nata nella sua mente, Perrotta dosa, con emozionante immedesimazione, toni, espressioni, gesti, sguardi, nel tessere la rete di personaggi – tra cui Cosimo, il barone sugli alberi, Agilulfo, Surgulù, Palomar, l’Onorevole e altri, come Suor Antica, inventati – e situarsi tra le maglie dei racconti di Calvino evocati, “Il barone rampante”, “Il cavalieri inesistente”, “Le cosmicomiche”, Le città invisibili”, “Palomar”. E con essi la città infelice di Raissa, e le città invivibili, la “Cosimo’s song”, il rap di Spirito e corpo, e infine il sogno del viaggio e ritorno nella Galassia dove “…Senti che in questo eterno, così, sospesi, non c’è più rabbia, fame di cose, turbamento esistenziale”.
Un sogno, un desiderio, una speranza che l’essere umano possa essere migliore. E intanto eccolo ritornare nella posizione riversa dell’inizio, mentre ricomincia la canzone di quel “…mondo che non si è fermato mai un momento”.

Sipario

Ogni volta che si nomina la parola “libertà” ho negli occhi l’immagine di quel dipinto di Delacroix conservato al Louvre, dove una donna di nome Marianna col seno scoperto e una bandiera sventolante in mano impersona “la libertà che gui da il popolo” (questo il titolo dell’opera) ponendosi alla testa della Rivoluzione francese. Subito dopo mi viene di cantare quei versi di Bella ciao che chiudono il noto canto popolare italiano dedicato alla Resistenza italiana contro il nazi-fascismo: «È questo il fiore del partigiano/ morto per la libertà!».

Per ciò che mi riguarda sono stati due i momenti in cui ho avvertito la-libertà-di-essere-libero e risalgono entrambe a quando avevo 20 anni. La prima volta è stata quando con jeans, giubbotto di daino e capelli lunghi, camminavo sul Boulevard Saint Germain di Parigi e un vento gelido novembrino si stampava sul mio viso senza farmi pensare a nulla e la seconda quando con una ragazza americana di nome Faith e un amico messinese di nome Nicola (da tempo scomparsi entrambi) salimmo a piedi di notte con le pile accese sul vulcano dello Stromboli e dormimmo a quasi mille metri di altezza, avvolti nei plaid e a debita distanza da “Iddu” (così è chiamato dagli abitanti dell’isola) fra la cenere calda e le lingue di fiamme e lapilli scagliati in alto dal cratere centrale.

Certamente anche Mario Perrotta ha avuto tanti momenti di libertà, risalenti, credo, ai suoi non lontani spettacoli realizzati sulla figura del pittoreLigabue a Gualtieri e dintorni, lì dove il Po accarezza la Bassa Padana; sui migranti che all’alba giungono per mare sulle rive del Salento, associato ad un testo di Lireta Katiaj; sulla trilogia della famiglia (padre, madre, figlio) con la consulenza drammaturgica di Massimo Recalcati. Adesso Mario Perrotta affronta la galassia di Italo Calvino (di cui quest’anno si celebra l’anniversario della sua nascita) scrivendo un testo che odora di poesia che lui interpreta e mette in scena con comprovata esperienza e bravura, in prima nazionale, al Teatro Carcano di Milano il cui titolo è s/Calvino, seguìto dalla parola libertà, una sorta di neologismo, scalvino, che lui scompone e ricompone con la “s” davanti e che tout court assume il significato di scomporre, scalvinare un po’ come scapigliare il suo verbo, senza voler fare uno spettacolo su Calvino, piuttosto sul senso della libertà che ricorre in tutta la sua opera aldilà dei momenti fantastici e realistici. In concreto Perrotta mette insieme il suo bisogno di parlare di libertà con tutto quello che è girato attorno alla fase pandemica, con la gente segregata in casa, libera o non libera di vaccinarsi, certamente limitandone la libertà, soddisfatta solo quando pensa di poter fare tutto ciò che vuole.

All’inizio Perrotta seduto su una piccola pedana con microfono che manipola a suo piacimento sembra una rock star per via d’un giacchino tutto luccicori che gli fascia il busto, mentre echeggiano le note della canzone Il mondo di Jimmy Fontana del 1965 che ci riportano a quei 12 racconti surreali e esilaranti delle Cosmicomiche, risalenti alla prima metà degli anni ’60 tutte intrise di nozioni astronomiche. Ma è un personaggio minore ad attrarre l’attenzione di Perrotta cui lui stesso dà vita entrando e uscendo dalla sua deforme struttura: un nano che il personaggio centrale del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, Amerigo Ormega, scorge ad una finestra, vedendo solo “due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di peluria”, (così lo descrive Calvino, pure lui scrutatore nel 1961 al Cottolengo di Torno). Quegli occhi che guardavano un onorevole democristiano, giunto in quella sezione elettorale per controllare i voti del suo praticello, che non s’accorge neppure che quel povero cristo batte contro il vetro la sua piccola mano per richiamare la sua attenzione. Non si sa cosa avrebbe voluto dirgli, ma insieme a Calvino capiamo che questa piccola figura deforme non ha alcuna possibilità di esercitare la sua libertà, ma tuttavia sarà lui, questa l’intelligente furbata drammaturgica di Perrotta, a scavare all’interno delle opere più significative di Calvino, alla ricerca del senso di libertà, scoprire che noi umani la bistrattiamo, non ne comprendiamo il valore, non sappiamo usarla, per giunta la rifiutiamo, cosa che lui e i suoi compagni non farebbero mai.Ecco dunque Il barone rampante di Cosimo che se ne sta in alto sugli alberi rappresentando il massimo della libertà; Il cavaliere inesistente di Agilulfo è un’anima senza corpo, mentre il suo scudiero Gurdulù è un corpo senza anima, solo zuppe e sesso, Perrotta ce lo restituisce sotto forma di lirico rap, con lo sguardo ai nostri tempi davanti ad un pc o ad uno smartphone, agghindati da cavalieri del web senza macchia e senza paura. Ci vengono incontro Le città invisibili, in particolare la città infelice di Raissa che contiene la città felice che non sa di esistere e ci appare il signor Palomar che davanti ad un seno nudo sulla spiaggia non sa come rapportarsi, denunciando tutta la nostra adeguatezza davanti ad un’immagine naturale. Negli 80 minuti che Perrotta è in scena utilizza tutta la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità che Calvino descrive nelle sue Lezioni americane, chiudendo lo spettacolo tra lunghissimi applausi del pubblico e con le note della canzone dell’inizio, riverso bocconi nella sua postazione, magari pensando di fare un giro sulla galassia e sperando che i tempi dilatati della creazione dell’universo possano aiutare l’essere umano a gestire meglio la sua libertà. Spettacolo da non perdere che girerà prossimamente in varie città italiane.

Gagarin Magazine

All’inizio il monologo di Mario Perrotta (dopo alcuni spettacoli d’ensemble è tornato magistrale solitario al posto di comando) si chiamava (S)Calvino poi cambiato nel ben più d’impatto Come una specie di vertigine (prod. Permar, ERT Teatro Nazionale) e prende le mosse da La giornata di uno scrutatore appunto di Italo Calvino del quale quest’anno si festeggiano i cento anni dalla nascita. Il narratore leccese prende un personaggio del romanzo (scritto dal ’53 al ’63, altre ricorrenze, nato da vicissitudini autobiografiche) che è ricoverato al Cottolengo, ospedale psichiatrico che raccoglie minorati mentali e fisici. Perrotta (che somiglia sempre più a Ben Affleck) ha sistemato la sua impalcatura meccanica proprio davanti ad un albero di ginepro di 400 anni sorto con le radici dentro un tempio nuragico che ancora mostra la canaletta di scolo per far defluire l’acqua usata all’interno della sala per le funzioni religiose. È uno scranno metallico, un telaio, una sorta di vecchia sedia da barbiere, quasi una macchina anni ’60 con i fari sotto ad accecare il pubblico. Se ne sta lì sopra come aquila nel suo nido, con giacca di paillettes da dj, capitano di una nave o marconista sulla sua torre le lunghe dita celesti nell’aria o marinaio dentro la coffa ad urlare Terra con tutta la gola. In quest’ora, intervallata dalla struggente Il mondo di Jimmy Fontana, Perrotta diventa i pensieri di un corpo deforme ma soprattutto immobile, si fa parola per chi parola non ce l’ha mai avuta e dà spazio ai suoi pensieri, terreni, semplici, vivi, carnali, sul suo piccolo mondo sempre uguale, che purtroppo non gira mai, sulle suore che lo accudiscono, sull’amore che vorrebbe ricambiato, sui suoi compagni di sventura. È un pezzo che strappa la pelle, uno scritto di rara sensibilità che ci fa sentire piccoli e stupidi nella fortuna che ogni giorno diamo per scontata nelle nostre lamentele e falsi problemi. Un nano bloccato fisso a letto a bocca aperta riesce a scuoterci con le sue parole di impotenza ma ugualmente di ottimismo, lo sforzo, i patimenti, la disabilità nella lucidità, l’impossibilità, l’impotenza. Io non sono libero dice, oppure Volere è potere per me non vale. Sono tutti schiaffi alle nostre piccole grandi depressioni, alle nostre ansie, alle nostre divagazioni sul tema per perdere o ingannare il tempo. È inchiodato al letto come lo è Perrotta a questa struttura, che lo contiene come ammiraglio alla plancia di comando dell’USS Enterprise di Star Trek, come Achab alla ricerca di se stesso e sentiamo sulla nostra pelle i chiodi nella carne della crocifissione, l’empatia che riesce a trasmettere, tormento idilliaco, in forma esaltante quando rappa di un turbinare di elenchi di parole (sembra un testo di Jovanotti) che è guerriglia ed enfasi, che è sturm und drang e sullucchero holdeniano, che è Paradiso e benedizione lancinante, flusso che ci soverchia e annega di un sorriso che ci scuote. Perrotta non ha mai smesso di raccontare gli ultimi, i marginali, i periferici. È una festa della parola e della scrittura, un urlo contro Dio, una bestemmia celestiale di questi esseri umani puri mummificati dentro corpi di sasso. Come una specie di vertigine ci regala spaesamento, un capogiro di sentimenti contrastanti, uno smarrimento, persi tra la bellezza dell’ascolto e la crudezza del significato, lasciandoci alla fine naufraghi impazienti e intontiti in quest’ultimo fermo immagine di un Perrotta caravaggesco ora testa di Oloferne, adesso testa di Medusa o Ragazzo morso da un ramarro. Non può lasciare indifferenti, ti prende, ti shakera, ti mette sottosopra, ti capovolge, ti agita, ti rivoluziona, ti colpisce in pieno, ti turba, ti disorienta, ti confonde, ti sconvolge.

Il Cittadino

Calvino secondo Perrotta

Affrontare uno scrittore come Italo Calvino, soprattutto la sua opera, ci vuole molto coraggio. Indubbia è la sua popolarità, la ristampa continua della sua produzione letteraria (romanzi, saggi, le fondamentali lezioni americane, ecc.), partner in crime è anche la scuola che ne ha fatto nel corso dei decenni un classico cui affidare le letture agli studenti sia durante l’anno scolastico sia per le vacanze estive. Ma, Calvino, oggi che si celebra il centenario della nascita, è molto di più di un classico. È uno scrittore a leggerlo attentamente che sposta il baricentro della sue narrazioni nel futuro. All’apparenza postumo. Ma che, ancorato alle ferree regole logiche del suo autore, potrebbe appartenere singolarmente ad ognuno di noi. Dunque: alla contemporaneità. Si diceva però del coraggio e chi di coraggio sulla scena ne ha molto è Mario Perrotta che, reduce dalle passeggiate psicoanalitiche con Massimo Recalcati, si è gettato sull’opera dello scrittore scegliendosi come parte un personaggio minore: il nano del romanzo “La giornata di uno scrutatore”, libro a forti tinte autobiografiche.Questo gli ha consentito di traslare in questo personaggio minimo, la sua apparizione occupa a stento una pagina, in un’operazione, “s/Calvino o della libertà” (visto al Teatro Carcano di Milano nell’ultimo weekend), che ricorda quella di Tom Stoppard con Rosencrantz e Guildstern sono morti: pretesti per aprire una galleria di nuove narrazioni all’interno di un racconto definito e strutturato. L’altro legame che si intravede a scorrere il teatro di Perrotta, già in più occasioni definito come teatro progettuale che nasce a blocchi, narrativi, sociologici, economici e trova inediti appoggi sia nella letteratura classica sia nella cronaca minuta e in episodi all’apparenza insignificanti. Come poteva essere il bacio reclamato a gran voce e disperazione dal pittore Ligabue in Un bès. In “s/Calvino o della libertà”, Perrotta, autorelegandosi su una sedia girevole, dà corpo, innominabile (vi è molto di quella reclusione fisica che è propria dei personaggi beckettiani), a uno di quegli esseri “fuori norma” che abitavano il Cottolengo di Torino (l’ambientazione fuori quadro resta quella della“Giornata” elettorale, sebbene i rimandi all’opera calviniana sono molti) e soprattutto voce che solo che lo spettatore ascolta, preso com’è in prima persona dal desiderio di vita e di attenzione che questo nano con estrema consapevolezza reclama dalla suora che lo imbocca e che pare non accorgersi di lui. Se non in un solo istante. In un fermo immagine che pare l’unico momento in cui ci si possa sentir liberi. Senonché in un fiero impeto di ribellione, tutto compreso nella sua mente, il nano comprende che in fondo a essere liberi come quelli che sono lì fuori non è sempre conveniente.

Imperia news

Standing ovation al Teatro dell’Albero per Mario Perrotta con il suo omaggio a Italo Calvino

Standing ovation ieri sera sabato 6 maggio, per il quarto appuntamento della ventesima rassegna organizzata dal Teatro dell’Albero di San Lorenzo al Mare, i fedeli spettatori hanno incontrato per la terza volta Mario Perrotta che è autore, regista (insieme a Paola Roscioli) e interprete dell’atto unico s/Calvino o della libertà

Dopo il suo strepitoso Ligabue – portato al teatro dell’Albero nel 2019 – Perrotta affronta un altra figura di diverso, di emarginato, un nano, un essere umano fortemente impedito nel movimento e nella parola, che nella solitudine di una  corsia del Cottolengo riflette idealmente sulla libertà coinvolgendo i  compagni ricoverati con lui e noi pubblico, noi apparentemente ‘liberi’ poiché privi di ogni impedimento fisico.

L’idea iniziale prende corpo dal racconto di Calvino La giornata di uno scrutatore (1953) e con Calvino si misura tutto il testo teatrale che ne mantiene l’impronta e lo spirito. Questo riflettere sulla libertà da parte di un uomo completamente prigioniero del proprio corpo assume una forza dirompente, vivificata dai legami con le opere calviniane che Perrotta indaga con acutezza e passione, in modo totalmente originale, legando l’anelito alla libertà dei personaggi di Calvino al desiderio di libertà di uomini costretti in letti di contenzione in modo irreversibile. I passaggi noti di alcuni testi capitali (tra cui Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Le città invisibili, Palomar) ci vengono restituiti con una forza narrativa e uno scavo intimo che testimonia la lunga consuetudine di Mario Perrotta con essi, interiorizzandoli fino a farne carne e teatro, ma c’è di più in questo testo sorprendente. C’è anche il desiderio, umanissimo, di essere guardati e visti come uomini veri e non solo come pazienti psichiatrici e handicappati fisici, di essere toccati e considerati non solo per accudire i  corpi deformi ma per ottenere il riconoscimento di esseri umani.  Solo l’amore ci rende veramente uomini e allora, pur costretto dal proprio limitante angolo di visuale, il protagonista cerca disperatamente un contatto vero con gli occhi di chi lo accudisce ma si rende conto che gli uomini sani e liberi non vedono e non capiscono, prigionieri come sono del proprio corpo, delle proprie pulsioni e delle limitazioni mentali che si autoimpongono durante la loro vita, irrequieti, angosciati, con l’affanno dell’esistenza e anche questo ha profondamente a che fare con la mancanza della libertà. Mario Perrotta è una attore di qualità eccelsa e come pochi altri capace di tenere fra le mani il cuore e il cervello del pubblico in 80 minuti tirati, durante i quali non si ode un fruscio né un respiro. Seduto su una sedia girevole con un microfono in mano canta, ritma come un rapper, narra questo suo testo così denso ma insieme rapido, esatto e leggero come sarebbe piaciuto a Italo Calvino. Più volte finalista e premiato ai premi UBU e Hystrio sia come attore che come autore Perrotta ci consegna una drammaturgia che entra con piena dignità fra i testi più significativi della letteratura teatrale di questo Paese.

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