Come una specie di vertigine

Come una specie di vertiginePermàr, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

«Ciò che colpisce è soprattutto l’abilità compositiva di Perrotta,
una scrittura icastica e una prova attoriale convincente»

Vincenzo Sardelli, Krapp's last post

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«Gira, il mondo gira / Nello spazio senza fine / Con gli amori appena nati / Con gli amori già finiti / Con la gioia e col dolore / Della gente come me».Una partitura musicale improntata alla leggerezza permea “S/Calvino, o della libertà”, presentato in prima nazionale al Teatro Carcano di Milano, punto d’approdo di un percorso avviato lo scorso anno dal premio Ubu Mario Perrotta.“Il mondo”, signature song di Jimmy Fontana, sigilla lo spettacolo all’inizio e alla fine.

Su una scena minimalista, un uomo con delle difficoltà fisiche: è seduto, anchilosato su una sedia, con i segmenti di un microfono che paiono avvitarsi intorno al suo corpo. I riflettori sotto i suoi piedi creano l’atmosfera sopita di un piano bar.Restare fermi, eppure avvertire un senso di vertigine. E infatti, come una conversione sulla via di Damasco, dalla prossima estate lo spettacolo cambierà titolo: si chiamerà proprio “Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà”, ci anticipa lo stesso Perrotta.

«La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare» diceva Piero Calamandrei. Bisogna saperla respirare. E Italo Calvino, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, rappresenta il respiro della letteratura sulle storture e sulle angustie del mondo contemporaneo. Calvino, ovvero la leggerezza, l’immaginazione trasognata, il volo della razionalità sul fanatismo; la modernità sospesa tra sogno e ragione, da vivere ad occhi aperti.

“Le cosmocomiche”, “Le città invisibili”, “Palomar”, “Il barone rampante”, “Il cavaliere inesistente”; infine, “Lezioni americane”: sono queste le coordinate di Perrotta, i libri da cui parte per scardinare l’universo di Calvino e accedervi. Ma c’è bisogno dei suoi valori per comprendere anche la nostra epoca sgualcita da lockdown, guerre, egoismi, drammi come quello dei profughi. Tuttavia è “La giornata di uno scrutatore” a dare l’abbrivo allo spettacolo. Pubblicato nel 1963, il romanzo segnò una svolta nella poetica di Calvino. Egli abbandonò molte certezze che lo avevano sostenuto, in particolare la fiducia nel progresso e nella centralità della politica.La genesi del romanzo sta nella duplice esperienza di Calvino al seggio presso il Cottolengo di Torino (istituto religioso di carità per malati con gravi disabilità e malformazioni) prima come candidato alle elezioni del ‘53, in seguito come scrutatore. Calvino ne uscì modificato, e decise di scriverne. Il termine scrutatore si estendeva al campo metafisico dell’indagine sull’uomo e sull’universo. Ne nacque un viaggio interiore dentro l’umanità degradata e dolente, a contatto con handicap e sofferenze. Ed è ciò che troviamo in scena: la crisi della stessa idea di uomo nata dall’umanesimo e dall’illuminismo; la sconfessione dell’uomo razionale, artefice del proprio destino.Che cosa definisce allora il romanzo? Non la ragione, ma l’amore con cui Calvino osserva un padre che accoglie il figlio disabile rendendolo pienamente persona tra gli uomini.

Perrotta compare in scena con un blazer lustrato. Sciancato come un crocifisso contemporaneo, il suo personaggio riversa sulla platea un effluvio di parole biascicate, dipanate, liberate. Ottanta minuti di versi, note, rime, assonanze, parabole e iperboli, paronomasie e metafore, che proiettano il pubblico nell’infinito fantasmagorico di Calvino. Ritroviamo il Perrotta plurilinguista, affrancato e anticonvenzionale, di lavori come “Odissea”, “Un bès”, “Italiani cìncali”. I prodromi di questo lavoro risalgono a “Libertà rampanti – Indagine a tre voci sul concetto di libertà”, progetto con Sara Chiappori e Vito Mancuso presentato in Salento la scorsa estate. E di questo si va in cerca: di una libertà che è anzitutto inchiesta esistenziale e riconoscimento degli spazi altrui. Al centro, un uomo limitato nel fisico e nella mente. È la somma di tutti gli ossimori. In quanto personaggio calviniano, egli possiede un grimaldello per scoperchiare il mondo letterario dello scrittore. Incontriamo Cosimo del “Barone rampante”, che a soli 12 anni sale su un albero, rinuncia all’amore e diventa pazzo. Una canzone di spirito e corpo fra trap sincopato e rap introduce “Il cavaliere inesistente”, anima immateriale che stigmatizza le derive edonistiche della nostra epoca. Ci sono poi “Le cosmicomiche”, con la speranza che gli spazi dilatati dell’universo possano aiutare l’uomo a gestire meglio la libertà. E ancora “Le città invisibili”, con la difficoltà di riconoscere la felicità. Infine “Palomar”, e il senso d’inadeguatezza di fronte alla bellezza.

Ciò che però colpisce in questo lavoro è soprattutto l’abilità compositiva di Perrotta, con i dettami delle “Lezioni americane” materializzati attraverso una scrittura icastica e una prova attoriale convincente. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sono i riferimenti di un testo incalzante, veloce, immediato. Nessun indugio, nessun orpello. Il segreto della narrazione sta nell’economia del racconto: frasi e trame puntiformi, segmenti rettilinei, e un movimento serrato.Perrotta definisce l’incantesimo dei tempi narrativi calviniani anche facendo ricorso ad anafore ed epistrofi. La ripetizione contribuisce alla chiarezza. Conferisce alla narrazione il valore della ritualità. La concisione rende il massimo d’efficacia narrativa e di suggestione poetica. Perrotta adotta un ritmo appropriato ai personaggi e alle azioni: sinteticità e concentrazione, rapidità e scioltezza.

Le immagini s’interiorizzano nello spettatore attraverso l’interpretazione scenica. Perrotta tratteggia le azioni come se si svolgessero realmente davanti ai nostri occhi. Poi definisce i personaggi, con costruzioni mentali vive e legate alla nostra esperienza. “S/Calvino o della libertà” diventa «un’interfaccia sottile tra il lettore e altri mondi di parole, un invito al viaggio di cui non si conosce mai la destinazione» (“Lezioni americane”).

Stratagemmi

s/Calvino o della libertà

Fiori per Algernon è un racconto di fantascienza di Daniel Keyes, pubblicato nel 1959, trasposto poi in romanzo (1966) e in film (I due mondi di Charly, 1968): narra in forma di diario l’esperimento scientifico a cui si sottopone Charlie, affetto da grave deficit mentale (in parallelo al topo Algernon), per sviluppare le proprie capacità mentali. L’esperimento ha successo, Charlie acquisisce una consapevolezza e una maturità a lui ignote, ma l’uomo e il topo sono accomunati dallo stesso destino – perdere del tutto le capacità mentali – come Charlie intuisce e poi testimonia nelle ultime strazianti pagine. Il racconto è magistrale per come descrive l’esperienza emotiva e affettiva di una persona dai processi intellettivi diversi dal comune, eppure a loro modo unici e preziosi: lo sottolinea Diego Lanza in un libro ormai ‘classico’ del 1997, Lo stolto, da leggere e rileggere (per citare il Calvino di Perché leggere i classici), e per fortuna ristampato nel 2020 da Petite Plaisance. Accanto a Charlie vi trovano posto personaggi come Gurdulù (Il cavaliere inesistente) e tanti ‘sciocchi’ delle fiabe (come quelle raccolte da Calvino), capaci di guardare il mondo in modo diverso, e raccontarcelo senza filtri, né finzioni, con ‘verità’. Questi stessi tratti distintivi caratterizzano il personaggio, tratto da Calvino, a cui dà corpo, anima e voce sul palco Mario Perrotta nello spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Carcano di Milano, s/Calvino, o della libertà: frutto di un lungo lavoro sul grande scrittore (di cui si celebra ora il centenario della nascita) scandito da varie tappe di avvicinamento.

Come Keyes, anche Perrotta sul palco dà voce magistralmente a uno ‘stolto’, in un monologo interiore in prima persona dalla struttura circolare, ad anello: parte dalle soglie della demenza per arrivare alle più alte forme di espressione, poi ripiomba nel buio di una totale afasia e immobilità. Perrotta trae spunto da La giornata di uno scrutatore, concepito e ambientato da Calvino il 7 giugno 1953, all’Istituto Cottolengo di Torino, tra i malati di mente che gli suscitano un’impressione fortissima (ci metterà dieci anni a scriverlo). Tra i pazienti del Cottolengo, ritratti nel libro, Perrotta ne sceglie uno, disabile e ‘nano’ (o meglio ‘diversamente abile’, ‘affetto da nanismo’, chiosa. E aggiunge «Se non c’è cattiveria in chi lo pronuncia – e in chi m’ha dipinto così di cattiveria non ce n’era, anzi – allora mi piace: Nano!». Come non pensare a chi oggi censura i classici in nome del politically correct: dopo Omero e Dahl toccherà anche a Calvino?). Perennemente intrappolato dentro un corpo inerte, incapace di muoversi e di esprimersi, il Nano domina il palco da una sedia, elevata su una struttura metallica (non c’è nient’altro in scena). Lo spettacolo si apre e si chiude, come una parentesi, con un lampo accecante di fari puntati su noi spettatori, sulle note di un ‘classico’ di Jimmy Fontana (Il mondo, 1965). A inizio spettacolo cerca di cantarla, il nostro protagonista: maschera muta, immobile, con occhi e bocca spalancati, il corpo bloccato in uno spasmo innaturale. Pian piano con spasmodica lentezza si anima, afferra il microfono, trova la voce. Canta. Oltre a conquistare lo spazio che l’autore («Il Calvino Italo») non gli ha concesso, al di là della pagina originale, si prende anche le libertà che la vita non gli ha dato, la capacità di muoversi, esprimersi, amare. E tramite lui affiorano dal testo le parole di Calvino, i suoi personaggi, pensieri, riflessioni, emozioni, gli amori ‘impossibili’ o quantomeno ‘difficili’, per citare un altro suo capolavoro (Gli amori difficili, 1958). Perrotta dà il meglio di sé cantando gli amori mancati, sfiorati, sognati, perduti o mai consumati. Come quello del protagonista per Suor Antica, che si occupa di lui, ma non lo sente, non lo guarda, non lo vede, o come quello di Cosimo per Viola (Il Barone Rampante, 1957). Il Nano e il Barone si guardano, in un passaggio-chiave: «Io non sono libero. E Suor Antica non sospetta proprio… Mi guarda e non mi vede. Potessi parlare, dire due cose, tanto per chiarire che sono qui, anche due cose minime… una! – guarda – una sola frase perché non ci sia equivoco che esisto, che penso, che sento; una ma lapidaria: non le voglio le lumache! Ah, ah. Come il Cosimo! Anche io, quando arriva la broda a papparella, tac, mi armo di lessico all’improvviso e grido: non la voglio la papparella! Sai che scompiglio… (considera) Il Cosimo… Nella testa del Calvino siamo nati quasi coetanei… Lui però è stata ‘na botta. “Non le voglio le lumache!”. Una rivoluzione! Che invidia. Poterlo fare io. Però il Cosimo l’ha fatto un po’ per tutti, eh? Tutti i ragazzetti del mondo in coro “Non le voglio le lumache”… Quantomeno l’ha fatto per me e per tutti gli impossibilitati all’eloquio qui dentro!»

Il Barone, visto dal Nano, riprende vita come simbolo di libertà, di ribellione, di tutto quello che in molti possono solo immaginare, rinchiusi nell’ospedale, nel loro stesso corpo, nella mente o altrove (e qui ripensiamo al lockdown). Costretti a guardare, muti, il mondo di ‘fuori’, sognando la libertà, la felicità, l’amore, senza riuscire a trovarli, a goderli, a conservarli: come Cosimo, che si autoconfina sugli alberi, suo regno e sua prigione (agli occhi del nostro anonimo protagonista) e non vi rinuncia neppure per amore, sacrificando la sua felicità mentre Perrotta, in un accorato appello, lo incita a seguire la donna della sua vita. Invano. «Noooo! Cosimo! Nooo! Cosa fai? Lasci andare?! Scendi da questi alberi, Cosimo! Va bene! Bello il mondo visto dall’alto, bello guardare con distacco, bello volare alto sulle cose del mondo, però poi la vita è qui giù, la carne, la passione, il culo di Venere! Sei tu che l’hai ostentato, sei tu che ce ne hai fatto innamorare, tutti! E ora lo guardi che si eclissa e non fai niente? Oh, altezzoso! Guarda che non sono più lumache! Qui si rischia, qui c’è il precipizio! Sai dov’è che arriva l’umano? Dove arriva l’amore! Senza quello che fai lì? Niente. Mi ha dato di matto il Cosimo, come l’Orlando, il furioso. Ha pianto che lui solo sa quanto, ha divelto rami e rami e scorticato tronchi interi, ha attaccato a scrivere Viola su tutti gli alberi del suo regno, come un adolescente qualunque. Ma scendi, no!»

I testi di Calvino (compresi Il cavaliere inesistente, Le cosmicomiche, Le città invisibili, Palomar) sono rielaborati e metabolizzati in forma poetica, spesso in rima, col ritmo di una ballad o di un pezzo trap: acquistano nuovo senso, ci appaiono a tratti profetici, ci parlano di noi, oggi, dei social, degli schermi, del contrasto tra essere e apparire, tra ‘dentro’ e ‘fuori’. «Eh, ridi ridi, te che il collo (ballìcchia dondolando il collo), ce l’hai sempre a disposizione… giri di qua, giri di là, guardi quel che credi, ma, appunto, non vedi. Scorri ma non scorgi. Osservi ma non contempli. Miri ma non ammiri. Assisti ma non interpreti. Trascorri ma trascuri. Registri ma non penetri (…)
Perrotta ci guarda, ci chiama direttamente in causa, mentre scattano i flash:
Il Calvino osserva le foto di tutti: quelle dei volti del lì fuori e quelle dei volti del qui dentro e cosa dice? (…) Dice che, noi dementi totali e le suore, nelle foto siamo… (…) beati. “Felici e fotogenici”. Provvisti di una evidente beatitudine (indicando il pubblico) Mentre di loro cos’è, che dice (…) Le foto dei loro documenti: uno strazio! Guarda: track! (flash degli accecatori sulla platea) Ecco! Guarda, guarda! Occhi sbarrati, lineamenti gonfi, “un sorriso che non lega” dice, un sorriso che non lega… (…) Track! (flash degli accecatori sulla platea) Guarda Agostino! (parla ai compagni) Avete visto? La nevrosi… L’impazienza che prefigura la morte nelle foto dei vivi.»

Ci vediamo con altri occhi. I suoi. Sentiamo tutto il peso del silenzio che l’opprime, a cui è costretto a tornare quando lo spettacolo si chiude come si è aperto: con la canzone di Jimmy Fontana, ora cantata da Perrotta, sommessamente, come un blues di sublime e struggente malinconia. Ma noi non siamo più gli stessi.

Hystrio

Il racconto del nano, un’ode alla libertà per rendere omaggio a Calvino

Giacca scintillante di paillettes, quattro fari che accecano il pubblico, un microfono ad asta e una scheletrica sedia girevole di metallo: quattro elementi, in parte antitetici, costruiscono l’intelaiatura del monologo con cui Mario Perrotta si inoltra nel corpus dei romanzi di Italo Calvino, scavando un sentiero affatto personale e, nondimeno, indiscutibilmente fedele.

 

L’attore-autore sceglie di aderire al punto di vista di un personaggio minore, una comparsa ne La giornata di uno scrutatore, uno dei tanti sfortunati ospiti del Cottolengo di Torino rinchiusi per sempre in quella bolla di vetro certo protettiva e, tuttavia, irrimediabilmente castrante. Ecco, dunque, che Perrotta decide di offrire a quel nano la libertà – da qui anche il sottotitolo – che il destino gli ha negato, tramutandolo in una sorta di eclettico entertainer, capace di inanellare senza reale soluzione di continuità monologo e contemporaneo melologo, flusso di coscienza e ripresa di passi tratti da altri romanzi di Calvino. Il narratore-entertainer alterna il racconto della vita al Cottolengo e il vagheggiamento di un amore impossibile per una suora – probabilmente l’unica categoria di donna conosciuta – con l’evocazione di personaggi quale il barone rampante Cosimo ovvero il solitario Palomar a passeggio sulla spiaggia; o, ancora, episodi tratti dalle Cosmicomiche e dalle Città invisibili.

 

Il drammaturgo Perrotta è abile nel comporre materiali multiformi in un’unità salda, ben trattenuta dal filo rosso di uno sperimentalismo linguistico rigoroso e mai velleitario che quello scrittore “scientifico” che era Calvino avrebbe sicuramente approvato. Così come avrebbe condiviso l’altro tema unificante, ossia quell’anelito alla libertà, che è in primo luogo possibilità reale di essere fino in fondo ciò che si è, dalla cui volontà di analisi è mossa la ricerca di Perrotta. E il lavoro dell’autore si traduce scenicamente nella sciolta e nondimeno rigorosissima versatilità dell’attore: la cadenza vagamente lombarda nei monologhi, la disinvolta spavalderia dei melologhi-rap e la coinvolta struggenza nell’interpretazione finale de Il mondo di Jimmy Fontana, canzone-totem di uno spettacolo armoniosamente forsennato e puntigliosamente sincero.

il manifesto

Mario Perrotta incantatore libera Calvino dalla vulgata
L’omaggio allo scrittore per riflettere sul senso della parola libertà ai nostri giorni

Il fermo immagine elaborato da Mario Perrotta quale tributo al centenario di Italo Calvino, andato in scena al milanese teatro Carcano col titolo s/Calvino o della libertà, è un flash di impervi saliscendi, uno sciabordio notturno che si illumina di continui campi e controcampi, frutto di un lungo lavoro scandito da varie tappe di avvicinamento. Sono le pagine di Calvino ma sono sopratutto le riflessioni, incalzanti e sofferte, che Perrotta, partendo dalla Giornata d’uno scrutatore, insegue sul toboga di cosa significa oggi la parola libertà. Oggi che, seppur in tempi di post pandemia, segregazione, isolamento, costrizione, solitudine non mollano la presa. Sgorga potente dalla voce di Jimmy Fontana (quel Mondo 1965 in pieno boom economico a far da eco alle Cosmicomiche appena uscito per Einaudi) con effetti stereofonici da esorcista incantatore, lì sullo sgabello al centro della scena, un trespolo girevole da cui si intravede il nido del cuculo prima di affrontare le dissonanze schizofreniche di un Nelo Risi o i depistaggi claustrofobici di un Silvano Agosti. Spostando l’asse di gravità narrativa dalla sempre verde aura di leggerezza che circonda Calvino, assaporando il gusto di un fraseggio ritmico e rimato che profuma di «oulipo», fino a farsi jam session in salsa rap trap, Perrotta con quella «esse» smagnetizza e smantella la vulgata sintesi dell’universo calviniano, apre il cuore di tenebra del suo protagonista, l’innocente «nano» prigioniero del Cottolengo, e sprofonda con estro da balera, guitto pirotecnico, nel delirium tremens di una inadeguatezza esistenziale che tutti ci travolge. Inadeguatezza che però non appartiene all’interprete Perrotta, implacabile, crepuscolare, coinvolgente. Ottanta minuti di esercizi di stile che solfeggiano il concerto del nostro sconcerto. In tournée.

la Repubblica

Cento anni dopo la sua nascita, Italo Calvino conquista i palcoscenici italiani che l’hanno finora molto snobbato. Potere degli anniversari. E tra le varie proposte, è da vedere Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà (ma il titolo iniziale era più bello: s/Calvino), che, dopo il Carcano di Milano, è in tournée e dal 17 sarà a Lecce. Lo firma e lo interpreta un attore padrone di sé e dei propri mezzi come Mario Perrotta: in giacchetta di lustrini, immobile (scelta ardita in teatro) in una sedia metallica provvista di microfono, intreccia la storia del nano del Cottolengo da La giornata d’uno scrutatore, al Cosimo del Barone rampante che cerca negli alberi la via di fuga, a Palomar che parla di emozione contro i pregiudizi. Smarginando tra le pagine di Città invisibili, Cosmicomiche, Il cavaliere inesistente in versione rap, si entra nella mitologia calviniana della leggerezza e libertà, consapevoli che tanto il mondo gira, “con la gioia e col dolore” come cantava Jimmy Fontana legittimamente ripescato. Insomma, missione compiuta, anche se con Calvino non è mai facile.

Exibart

Nel mondo di Italo Calvino, con libertà: la pièce di Mario Perrotta debutta a Milano

Al Teatro Carcano di Milano, Mario Perrotta muove le corde dei personaggi di Italo Calvino, dal Barone Rampante a Palomar, intrecciando storie di umanissima sostanza.
È la parola “libertà” alla quale dare voce. E a muovere l’animo, la mente, i gesti di Mario Perrotta regalandoci un ammaliante, immaginifico, appassionato viaggio interiore tra le parole “in libertà” di Italo Calvino, prese in prestito per un componimento originale dello stesso attore pugliese. Lo spettacolo “Come una specie di vertigine. Il nano, Calvino, la libertà”, ha la sua originalità nell’intrecciare con leggerezza e profondità storie di umanissima sostanza dentro il racconto di un solo uomo, di nome Nano, che «Tra i tanti abitanti delle pagine dei romanzi di Calvino – scrive Perrotta -, è quello meno libero: ha un corpo, una lingua e una mente che non rispondono alla sua urgenza di dire, di agire».
Dalla sua postazione fissa – bloccato su una sedia e con accanto un microfono – si apre un mondo: quel mondo che “…gira nello spazio senza fine, con gli amori appena nati, con gli amori già finiti, con la gioia e col dolore della gente come me” che la celebre canzone di Jimmy Fontana evoca, e che egli, inseguendo il brano musicale, cerca disperatamente di cantare contorcendo la bocca. Dall’iniziale scompostezza il suo corpo deforme progressivamente si ricomporrà assumendo una postura misurata e riacquistando la voce per cantare.
Con questo inizio di spettacolo, Perrotta, collocato sopra una pedana con dei fari a tratti puntati verso la platea, ci presenta il suo personaggio, il nano, raccontato nel romanzo autobiografico di Calvino “La giornata d’uno scrutatore”. Fissando il pubblico e rivolgendosi a dei singoli spettatori comincerà a parlare. E non ci lascerà più col suo sguardo, col suo indicarci e coinvolgerci e provocarci – «Io non sono libero… voi si!» – con domande sulla libertà mai compresa nel suo valore, facendoci entrare nel suo fantasioso e realistico mondo a più voci, in quello spazio circoscritto, luogo di cura (il Cottolengo di Torino) che comprende i suoi compagni di corsia interpellati con amorevolezza, e ai quali guarda girando il viso a destra e a sinistra, e con un lieve piegamento del busto all’indietro.
Conferendo spirito e carne al personaggio che, nonostante tutto, non sarà mai intenzionato a «Rassegnare le dimissioni dall’ottimismo», né ad abbandonare un’impossibile storia d’amore nel frattempo nata nella sua mente, Perrotta dosa, con emozionante immedesimazione, toni, espressioni, gesti, sguardi, nel tessere la rete di personaggi – tra cui Cosimo, il barone sugli alberi, Agilulfo, Surgulù, Palomar, l’Onorevole e altri, come Suor Antica, inventati – e situarsi tra le maglie dei racconti di Calvino evocati, “Il barone rampante”, “Il cavalieri inesistente”, “Le cosmicomiche”, Le città invisibili”, “Palomar”. E con essi la città infelice di Raissa, e le città invivibili, la “Cosimo’s song”, il rap di Spirito e corpo, e infine il sogno del viaggio e ritorno nella Galassia dove “…Senti che in questo eterno, così, sospesi, non c’è più rabbia, fame di cose, turbamento esistenziale”.
Un sogno, un desiderio, una speranza che l’essere umano possa essere migliore. E intanto eccolo ritornare nella posizione riversa dell’inizio, mentre ricomincia la canzone di quel “…mondo che non si è fermato mai un momento”.

Teatro e Critica

Il palco spoglio è tutto ciò di cui Mario Perrotta ha bisogno. Vi si siede al centro con una struttura che regge un microfono, su di una postazione di immobile fissità. Luogo trasformativo però, perché spazio dello sdoppiamento (tra attore-autore-caratteri) dove prendono continuamente vita i personaggi di Calvino da “una trilogia sul come realizzarsi esseri umani, tre gradi di approccio alla libertà”. E di libertà si tratta, quando a parlare è un uomo imprigionato in un corpo con disfunzioni espressive e di movimento (estrapolato dai passi de La giornata di uno scrutatore). Perrotta lo chiama nano, affetto da nanismo, diversamente abile, veste abiti luccicanti e non si sposta dalla sedia su cui è saldamente bloccato. Il suo corpo si agita di fronte al pubblico, genera dei forti spasmi, l’afasia lo porta invece a riprodurre suoni lontani, incomprensibili, sospesi a metà tra il detto e non-detto. “Io non sono libero”, confessa poi. Ma quest’affermazione è una cerniera d’apertura, accecante come l’intensità della luce che ci fa chiudere gli occhi pur di non reggerne il confronto, perché raccoglie in sé una spinta vigorosa, una verità taciuta che è motore del racconto di un viaggio personalissimo nell’universo di Italo Calvino. Qui, ancora niente è perduto e il testo del regista si rivela essere una ricerca nostalgica, attenta e fedele nei sentimenti, che trova un’ancora salda ed evocativa nella capacità interpretativa, spaziando dal racconto al canto ai versi rap. Perrotta si addentra così nelle trame calviniane e agisce su di esse come un ricamatore, aggiunge dettagli, intensifica passioni ed estrae delle riflessioni sul valore dell’autodeterminazione e sulla questione dell’alterità, per recuperare infine la meraviglia, quella delle città invisibili, le possibilità metamorfiche dell’armatura vuota di Agilulfo e il silenzio disincantato di Palomar. E la febbrile disobbedienza di Cosimo, Cosimo che rifiuta le lumache, Cosimo che vive sugli alberi, Cosimo che ancora s’innamora.

Il Cittadino

Calvino secondo Perrotta

Affrontare uno scrittore come Italo Calvino, soprattutto la sua opera, ci vuole molto coraggio. Indubbia è la sua popolarità, la ristampa continua della sua produzione letteraria (romanzi, saggi, le fondamentali lezioni americane, ecc.), partner in crime è anche la scuola che ne ha fatto nel corso dei decenni un classico cui affidare le letture agli studenti sia durante l’anno scolastico sia per le vacanze estive. Ma, Calvino, oggi che si celebra il centenario della nascita, è molto di più di un classico. È uno scrittore a leggerlo attentamente che sposta il baricentro della sue narrazioni nel futuro. All’apparenza postumo. Ma che, ancorato alle ferree regole logiche del suo autore, potrebbe appartenere singolarmente ad ognuno di noi. Dunque: alla contemporaneità. Si diceva però del coraggio e chi di coraggio sulla scena ne ha molto è Mario Perrotta che, reduce dalle passeggiate psicoanalitiche con Massimo Recalcati, si è gettato sull’opera dello scrittore scegliendosi come parte un personaggio minore: il nano del romanzo “La giornata di uno scrutatore”, libro a forti tinte autobiografiche.Questo gli ha consentito di traslare in questo personaggio minimo, la sua apparizione occupa a stento una pagina, in un’operazione, “s/Calvino o della libertà” (visto al Teatro Carcano di Milano nell’ultimo weekend), che ricorda quella di Tom Stoppard con Rosencrantz e Guildstern sono morti: pretesti per aprire una galleria di nuove narrazioni all’interno di un racconto definito e strutturato. L’altro legame che si intravede a scorrere il teatro di Perrotta, già in più occasioni definito come teatro progettuale che nasce a blocchi, narrativi, sociologici, economici e trova inediti appoggi sia nella letteratura classica sia nella cronaca minuta e in episodi all’apparenza insignificanti. Come poteva essere il bacio reclamato a gran voce e disperazione dal pittore Ligabue in Un bès. In “s/Calvino o della libertà”, Perrotta, autorelegandosi su una sedia girevole, dà corpo, innominabile (vi è molto di quella reclusione fisica che è propria dei personaggi beckettiani), a uno di quegli esseri “fuori norma” che abitavano il Cottolengo di Torino (l’ambientazione fuori quadro resta quella della“Giornata” elettorale, sebbene i rimandi all’opera calviniana sono molti) e soprattutto voce che solo che lo spettatore ascolta, preso com’è in prima persona dal desiderio di vita e di attenzione che questo nano con estrema consapevolezza reclama dalla suora che lo imbocca e che pare non accorgersi di lui. Se non in un solo istante. In un fermo immagine che pare l’unico momento in cui ci si possa sentir liberi. Senonché in un fiero impeto di ribellione, tutto compreso nella sua mente, il nano comprende che in fondo a essere liberi come quelli che sono lì fuori non è sempre conveniente.

Imperia news

Standing ovation al Teatro dell’Albero per Mario Perrotta con il suo omaggio a Italo Calvino

Standing ovation ieri sera sabato 6 maggio, per il quarto appuntamento della ventesima rassegna organizzata dal Teatro dell’Albero di San Lorenzo al Mare, i fedeli spettatori hanno incontrato per la terza volta Mario Perrotta che è autore, regista (insieme a Paola Roscioli) e interprete dell’atto unico s/Calvino o della libertà

Dopo il suo strepitoso Ligabue – portato al teatro dell’Albero nel 2019 – Perrotta affronta un altra figura di diverso, di emarginato, un nano, un essere umano fortemente impedito nel movimento e nella parola, che nella solitudine di una  corsia del Cottolengo riflette idealmente sulla libertà coinvolgendo i  compagni ricoverati con lui e noi pubblico, noi apparentemente ‘liberi’ poiché privi di ogni impedimento fisico.

L’idea iniziale prende corpo dal racconto di Calvino La giornata di uno scrutatore (1953) e con Calvino si misura tutto il testo teatrale che ne mantiene l’impronta e lo spirito. Questo riflettere sulla libertà da parte di un uomo completamente prigioniero del proprio corpo assume una forza dirompente, vivificata dai legami con le opere calviniane che Perrotta indaga con acutezza e passione, in modo totalmente originale, legando l’anelito alla libertà dei personaggi di Calvino al desiderio di libertà di uomini costretti in letti di contenzione in modo irreversibile. I passaggi noti di alcuni testi capitali (tra cui Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Le città invisibili, Palomar) ci vengono restituiti con una forza narrativa e uno scavo intimo che testimonia la lunga consuetudine di Mario Perrotta con essi, interiorizzandoli fino a farne carne e teatro, ma c’è di più in questo testo sorprendente. C’è anche il desiderio, umanissimo, di essere guardati e visti come uomini veri e non solo come pazienti psichiatrici e handicappati fisici, di essere toccati e considerati non solo per accudire i  corpi deformi ma per ottenere il riconoscimento di esseri umani.  Solo l’amore ci rende veramente uomini e allora, pur costretto dal proprio limitante angolo di visuale, il protagonista cerca disperatamente un contatto vero con gli occhi di chi lo accudisce ma si rende conto che gli uomini sani e liberi non vedono e non capiscono, prigionieri come sono del proprio corpo, delle proprie pulsioni e delle limitazioni mentali che si autoimpongono durante la loro vita, irrequieti, angosciati, con l’affanno dell’esistenza e anche questo ha profondamente a che fare con la mancanza della libertà. Mario Perrotta è una attore di qualità eccelsa e come pochi altri capace di tenere fra le mani il cuore e il cervello del pubblico in 80 minuti tirati, durante i quali non si ode un fruscio né un respiro. Seduto su una sedia girevole con un microfono in mano canta, ritma come un rapper, narra questo suo testo così denso ma insieme rapido, esatto e leggero come sarebbe piaciuto a Italo Calvino. Più volte finalista e premiato ai premi UBU e Hystrio sia come attore che come autore Perrotta ci consegna una drammaturgia che entra con piena dignità fra i testi più significativi della letteratura teatrale di questo Paese.

Sipario

Ogni volta che si nomina la parola “libertà” ho negli occhi l’immagine di quel dipinto di Delacroix conservato al Louvre, dove una donna di nome Marianna col seno scoperto e una bandiera sventolante in mano impersona “la libertà che gui da il popolo” (questo il titolo dell’opera) ponendosi alla testa della Rivoluzione francese. Subito dopo mi viene di cantare quei versi di Bella ciao che chiudono il noto canto popolare italiano dedicato alla Resistenza italiana contro il nazi-fascismo: «È questo il fiore del partigiano/ morto per la libertà!».

Per ciò che mi riguarda sono stati due i momenti in cui ho avvertito la-libertà-di-essere-libero e risalgono entrambe a quando avevo 20 anni. La prima volta è stata quando con jeans, giubbotto di daino e capelli lunghi, camminavo sul Boulevard Saint Germain di Parigi e un vento gelido novembrino si stampava sul mio viso senza farmi pensare a nulla e la seconda quando con una ragazza americana di nome Faith e un amico messinese di nome Nicola (da tempo scomparsi entrambi) salimmo a piedi di notte con le pile accese sul vulcano dello Stromboli e dormimmo a quasi mille metri di altezza, avvolti nei plaid e a debita distanza da “Iddu” (così è chiamato dagli abitanti dell’isola) fra la cenere calda e le lingue di fiamme e lapilli scagliati in alto dal cratere centrale.

Certamente anche Mario Perrotta ha avuto tanti momenti di libertà, risalenti, credo, ai suoi non lontani spettacoli realizzati sulla figura del pittoreLigabue a Gualtieri e dintorni, lì dove il Po accarezza la Bassa Padana; sui migranti che all’alba giungono per mare sulle rive del Salento, associato ad un testo di Lireta Katiaj; sulla trilogia della famiglia (padre, madre, figlio) con la consulenza drammaturgica di Massimo Recalcati. Adesso Mario Perrotta affronta la galassia di Italo Calvino (di cui quest’anno si celebra l’anniversario della sua nascita) scrivendo un testo che odora di poesia che lui interpreta e mette in scena con comprovata esperienza e bravura, in prima nazionale, al Teatro Carcano di Milano il cui titolo è s/Calvino, seguìto dalla parola libertà, una sorta di neologismo, scalvino, che lui scompone e ricompone con la “s” davanti e che tout court assume il significato di scomporre, scalvinare un po’ come scapigliare il suo verbo, senza voler fare uno spettacolo su Calvino, piuttosto sul senso della libertà che ricorre in tutta la sua opera aldilà dei momenti fantastici e realistici. In concreto Perrotta mette insieme il suo bisogno di parlare di libertà con tutto quello che è girato attorno alla fase pandemica, con la gente segregata in casa, libera o non libera di vaccinarsi, certamente limitandone la libertà, soddisfatta solo quando pensa di poter fare tutto ciò che vuole.

All’inizio Perrotta seduto su una piccola pedana con microfono che manipola a suo piacimento sembra una rock star per via d’un giacchino tutto luccicori che gli fascia il busto, mentre echeggiano le note della canzone Il mondo di Jimmy Fontana del 1965 che ci riportano a quei 12 racconti surreali e esilaranti delle Cosmicomiche, risalenti alla prima metà degli anni ’60 tutte intrise di nozioni astronomiche. Ma è un personaggio minore ad attrarre l’attenzione di Perrotta cui lui stesso dà vita entrando e uscendo dalla sua deforme struttura: un nano che il personaggio centrale del romanzo autobiografico La giornata d’uno scrutatore, Amerigo Ormega, scorge ad una finestra, vedendo solo “due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di peluria”, (così lo descrive Calvino, pure lui scrutatore nel 1961 al Cottolengo di Torno). Quegli occhi che guardavano un onorevole democristiano, giunto in quella sezione elettorale per controllare i voti del suo praticello, che non s’accorge neppure che quel povero cristo batte contro il vetro la sua piccola mano per richiamare la sua attenzione. Non si sa cosa avrebbe voluto dirgli, ma insieme a Calvino capiamo che questa piccola figura deforme non ha alcuna possibilità di esercitare la sua libertà, ma tuttavia sarà lui, questa l’intelligente furbata drammaturgica di Perrotta, a scavare all’interno delle opere più significative di Calvino, alla ricerca del senso di libertà, scoprire che noi umani la bistrattiamo, non ne comprendiamo il valore, non sappiamo usarla, per giunta la rifiutiamo, cosa che lui e i suoi compagni non farebbero mai.Ecco dunque Il barone rampante di Cosimo che se ne sta in alto sugli alberi rappresentando il massimo della libertà; Il cavaliere inesistente di Agilulfo è un’anima senza corpo, mentre il suo scudiero Gurdulù è un corpo senza anima, solo zuppe e sesso, Perrotta ce lo restituisce sotto forma di lirico rap, con lo sguardo ai nostri tempi davanti ad un pc o ad uno smartphone, agghindati da cavalieri del web senza macchia e senza paura. Ci vengono incontro Le città invisibili, in particolare la città infelice di Raissa che contiene la città felice che non sa di esistere e ci appare il signor Palomar che davanti ad un seno nudo sulla spiaggia non sa come rapportarsi, denunciando tutta la nostra adeguatezza davanti ad un’immagine naturale. Negli 80 minuti che Perrotta è in scena utilizza tutta la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità che Calvino descrive nelle sue Lezioni americane, chiudendo lo spettacolo tra lunghissimi applausi del pubblico e con le note della canzone dell’inizio, riverso bocconi nella sua postazione, magari pensando di fare un giro sulla galassia e sperando che i tempi dilatati della creazione dell’universo possano aiutare l’essere umano a gestire meglio la sua libertà. Spettacolo da non perdere che girerà prossimamente in varie città italiane.

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