Mario Perrotta

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L’abbandono di Bouvard e Pécuchet Dal romanzo incompiuto di Gustave Flaubert “Bouvard et Pécuchet”, scritto nel 1874 ed edito ad un anno dalla sua morte, Mario Perrotta, della compagnia del Teatro dell’Argine, nata a San Lazzaro di Savena (Bologna) nel 1994, concepisce uno spettacolo, coprodotto in collaborazione con Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, […]

L’abbandono di Bouvard e Pécuchet

Dal romanzo incompiuto di Gustave Flaubert “Bouvard et Pécuchet”, scritto nel 1874 ed edito ad un anno dalla sua morte, Mario Perrotta, della compagnia del Teatro dell’Argine, nata a San Lazzaro di Savena (Bologna) nel 1994, concepisce uno spettacolo, coprodotto in collaborazione con Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, composto da apparizioni e riflessioni da un universo fatto di solitudine.
I protagonisti dell’autore francese sono due impiegati parigini volontariamente segregati in uno spazio non rivelato, mentre nella riscrittura della drammaturgia dell’autore e regista teatrale italiano, sono due uomini del nostro tempo che studiando e indagando il web alla ricerca di soluzioni, sperimentano tutto ciò che possono, per affrontare e chiarire le motivazioni del dolore esistenziale che li attanaglia.
La scena si compone suddivisa in due sezioni: lo schermo e il palcoscenico, due realtà concatenate l’una all’altra, che trasformano l’ambientazione in una doppia dimensione spaziale, nella quale quattro soggetti, due logorroici e due muti, con cerone bianco sul volto, e vestiti con abiti che ricordano quelli felliniani de “La strada”, creano un infinito e ripetitivo alternarsi di botta e risposta.
La loro è una tana, un rifugio o una prigione in cui non manifestano agonismo, piuttosto complicità a volte inconsapevole, che conduce all’immagine talvolta tesa al ridicolo, di un isolamento allucinato che non sarà sconfitto dalla conoscenza.
Nel turbinio di parole e immagini, sottolineate da pagine del web, una figura, che non parla ma canta, mima i tentativi di azione, escamotage, compreso il suicidio, che non troveranno compimento, lasciando tutto esattamente allo stesso punto nel quale il percorso si è originato, e stabilendo, come unica certezza, l’essere emarginati fra milioni di persone.
Il regista chiude così la sua trilogia nella quale ha indagato sull’individuo sociale, partendo da “Il Misantropo” di Molière e proseguendo con “I Cavalieri” di Aristofane, e compone una buona partitura che si fonda sull’attesa di qualcosa di indefinito, senza affrontare la tematica in modo duro o spietato, ma piuttosto in modo irriverente e goliardico, con la buona prova degli interpreti e il giusto apporto delle musiche eseguite dal vivo, e dei supporti video.