Mario Perrotta

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Atto Finale – Flaubert Capitolo conclusivo di una trilogia premiata con l’Ubu, la pièce di Mario Perrotta si muove al confine tra “Bouvard e Pécuchet” e “Aspettando Godot”. Di cui pare a tratti l’ideale prosecuzione La vera domanda da porsi – e non si tratta di un’oziosa questione formale – è se questo Atto finale […]

Atto Finale – Flaubert

Capitolo conclusivo di una trilogia premiata con l’Ubu, la pièce di Mario Perrotta si muove al confine tra “Bouvard e Pécuchet” e “Aspettando Godot”. Di cui pare a tratti l’ideale prosecuzione

La vera domanda da porsi – e non si tratta di un’oziosa questione formale – è se questo Atto finale – Flaubert di Mario Perrotta, l’interessante spettacolo che chiude la sua “trilogia dell’individuo sociale” iniziata col Misantropo di Molière e proseguita coi Cavalieri di Aristofane, sia da considerarsi una riscrittura di Bouvard e Pécuchet nello stile di Samuel Beckett, o un rifacimento delle opere di Beckett che passa attraverso il romanzo incompiuto di Flaubert. Personalmente propendo per la seconda ipotesi: troppi richiami, troppe citazioni – e troppo esplicite – nei dialoghi e nella struttura stessa del testo sembrano rimandare allo scrittore irlandese. A ben vedere persino il titolo potrebbe suggerire un incrocio fra Atto senza parole e Finale di partita.

Per aspetti si potrebbe addirittura sostenere che Atto finale – Flaubert cominci là dove Aspettando Godot finisce, o per meglio dire dove quest’ultimo resta in qualche modo in sospeso: i due personaggi flaubertiani pensano a darsi la morte (“Suicidiamoci, ti prego”) esattamente come ci pensano Vladimiro ed Estragone (“e se ci impiccassimo?”). Ma, al di là dell’evidente parallelismo, ho come l’impressione che tutta questa densa e feroce messinscena non sia altro che un lungo e articolato tentativo di interrogarsi sulle ragioni per cui Didi e Gogo – e come loro Bouvard e Pécuchet – a un certo punto provino il desiderio di togliersi la vita.

In questa pungente versione di Perrotta i due impiegati della Parigi di fine Ottocento diventano degli odierni internauti che si isolano volontariamente, in un luogo imprecisato, per cercare in rete delle risposte al loro disperato bisogno di dare un senso alle proprie esistenze. Con le tastiere appese al collo, registrando in video e rivedendo in seguito – l’azione si protrae dal 2010 al 2060 – le varie tappe del loro percorso di conoscenza, esplorano Google per trovarvi un barlume di speranza, ma ne ricevono solo cattive notizie: Dio è morto, il linguaggio è morto, il sapere è solo un caotico accumularsi di contraddizioni. E forse, in fondo, anche tutto questo non è che un equivalente web dello sconclusionato monologo di Lucky, il servo-filosofo di Aspettando Godot.

“Sconfitti nella parola, sconfitti nel silenzio”, vengono per giunta investiti senza pietà dall’incessante flusso di brutture del mondo attuale, squallidi concorsi di “miss chirurgia estetica”, inquietanti provini di X-Factor. L’unico spiraglio di salvezza sono due poetiche figure silenziose, vagamente vestite alla Marcel Marceau, che comunicano tra loro con l’alfabeto dei sordomuti: una mima pronta anche a intonare canzoni della Piaf e il musicista Mario Arcari che esegue al piano le “variazioni Goldberg”. Riusciranno, i due, a risalire dal loro inferno? Rivedranno, prima o poi, quell’ideale luna del pastore errante leopardiano, citata a conclusione dello spettacolo? Forse, ma c’è da dubitarne, visto che il tono prevalente è quello di un acre pessimismo.

L’intero testo, non a caso, è d’altronde improntato a un linguaggio ispido, un po’ sghembo, che sembra ispirarsi al taglio cupamente cabarettistico del lavoro su Aristofane: Perrotta, leccese, e Lorenzo Ansaloni, bolognese, calcano vistosamente sulle rispettive cadenze dialettali, con l’intento di accostarsi ai personaggi in una chiave dichiaratamente “bassa”, quasi pasoliniana. I due vestono delle specie di marsine alla Flaubert, ma stinte, ingrigite come i loro volti. L’approccio scelto con coerenza dall’attore-regista non è in sostanza – e non vuole essere – né gradevole né accattivante: il suo è uno sguardo sul nostro tempo che stride, disturba. È l’espressione di un’insofferenza da cui dovrebbe nascere una catartica voglia di riscatto.