Mario Perrotta

Corriere Nazionale

Google Dio dei Tempi Moderni dei nostri Giorni infelici “Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?” (Giacomo Leopardi, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”) Le armi di informazione di massa sono i libri. I […]

Google Dio dei Tempi Moderni dei nostri Giorni infelici

“Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?” (Giacomo Leopardi, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”)

Le armi di informazione di massa sono i libri. I volumi, l’inchiostro, la parola scritta che dura e resta e rimane nel tempo. La conoscenza, potremmo dire sintetizzando. Nell’evoluzione a tre strati sull’uomo del nostro tempo, Mario Perrotta (progetto per il quale si è finalmente meritato l’ultimo Premio Speciale Ubu) è passato prima da un Moliere dell’uno contro il Potere che assorbe e schiaccia, ad un Aristofane d’avanspettacolo filtrato dal tubo catodico, fino a questo Flaubert, l’“Atto finale”, in tutti i sensi, senza ritorno, dell’uomo che, resosi conto dell’impossibilità di vivere in mezzo agli altri ed alla loro stupidità, nell’intima comprensione definitiva della sua inutilità e idiozia di fronte al grande ammasso di scibile, rifiuta l’osmosi e l’apparentamento con la società, contrae se stesso, si imprigiona in uno studio matto e disperatissimo, autoemarginandosi in un eremo fatto di notizie e documenti, per quanto dentro vi sia l’infinito però pur sempre materia morta. L’illusione faustiana risulta carta straccia, lettera inevasa, insoddisfazione estrema. Sapere di non sapere non è soltanto un filosofeggiamento vacuo. Saranno stati i libri o il mio provincialismo, sputa Guccini nella sua “Avvelenata”. Avvelenati, ed arrabbiati, ma con la classe dei principianti e l’eleganza propria degli sprovveduti che agiscono senza veder bene ed inquadrare l’occhio del ciclone, sono i nostri due, Bouvard (Lorenzo Ansaloni dagli assoluti tempi comici e surreali) e Pecuchet (lo stesso Perrotta stralunato nella sua traduzione salentina onomatopeica ed ingarbugliata, leggero e tragico sguardo), dall’omonimo romanzo rimasto incompleto, causa decesso, di Flaubert che, si racconta, andasse in giro per feste e cocktail, tra salotti e prosecchi, tra foyer e balli a palazzo per assorbire, registrare, ascoltare e poi, una volta a casa, trascrivere le frasi fatte, il trito, le convenzioni convenienti sdoganate, quella patina di superficialità fatta passare, a suon di risatine e gomitate, per vezzo, per movenze e mondanità, quindi parente, seppur alla lontana, dall’essere di moda, di tendenza, ed in qualche modo essere arguto e pseudo intellettuale. Forse Flaubert si è rovinato gli ultimi anni della propria vita in un assurdo gioco, a perdere, con il proprio tempo, in un collezionismo che l’ha ucciso. Tra guardie, chi controlla, e ladri, chi cerca il pertugio ed il cavillo, sono sempre i secondi a farla franca. L’indignazione per la stupidità del proprio tempo a volte non serve. Quindi, pensano i nostri Candide, meglio l’autoesclusione. In una trasposizione moderna al posto delle volgari pagine, dei tomi desueti, delle copertine ingiallite, ecco tastiere, messe al collo come gioghi di buoi o come medaglioni, come collari e guinzagli legati alla cuccia, catene di schiavi di cotone o come gli orologioni che portavano al collo i Public Enemy negli anni ’80, e computer, pc sempre accesi e connessi. Tutto intorno a te. Nel grande schermo sul fondo corrono migliaia di pagine, Google, Youtube e Wikipedia sono ormai i nostri Dei e salvatori, risolutori di ogni dubbio, di ogni suspense, di ogni punto interrogativo. Potremmo ricorrere alla parodia dell’evoluzione dell’Uomo che da cavernicolo, prima lascia la clava, poi si erige su due zampe, ed infine si mette seduto, gobbo e ricurvo, davanti ad un computer. Lì, nella virtualità, c’è la salvezza, la risposta ai quesiti (anche Amleto si sarebbe risposto testé), il grande oracolo che benedice, assolve, rassicura, perdona, che ci chiama come sirena, dal quale dipendiamo come droga. I nostri due, dalle facce imbiancate come fossero appena usciti dal baule dei sei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, ricordano celebri coppie beckettiane, Ham e Clov di “Finale di partita” per l’attaccamento accanito l’uno all’altro, oppure Vladimiro e Estragone di “Aspettando Godot” per l’ingenuità cocciuta. Sono due provincialotti che non si capiscono, fallaci e sbagliati che confondono, illusi che credono di aver afferrato, quando invece hanno frainteso. Prendono le classiche lucciole per lanterne. I qui pro quo sono il pane quotidiano della drammaturgia: ecco che spuntano paragoni con Totò e Peppino come con Benigni e Troisi, l’Armata Brancaleone, o pezzi epici di commedia all’italiana. Sono stupidi ma non fessi, due soliti idioti che commentano il loro “rapimento” registrando tutto in comunicati, (richiamano alla mente il caso Moro), da diffondere ad una nazione che non li cerca, che non li piange. Ed il tempo passa (si arriva fino al 2065) come se niente passasse, come se nulla mutasse. Sono chiusi in un buco a cercare il bandolo della matassa, in poche parole la soluzione alla felicità. Avevano paura del reale, ma il virtuale è ancora più spaventoso perché apre voragini infinite di conoscenza, abissi di ignoranza impossibili da colmare. Come fare per “risolvere questa belva di vita”? Per tenerla a bada non basta studiare, apprendere. Bisognerebbe vivere. Ma l’uomo è finito. Ma ormai non basta più nemmeno quello. Ci vorrebbe un’altra vita, stonava Battiato. E’ la mania di voler controllare, comprendere ogni sfaccettatura, catalogare eventi e memorie, storie e accadimenti che sposta la vita vera, il presente, sempre un po’ più in là, rimandandolo in avanti, ad un futuro prossimo. In qualche modo la loro sete di conoscenza ci riporta al Frankenstein, alla costruzione di un uomo nuovo, di un contenitore più ampio di informazioni da elaborare. Vista l’impossibilità fisica della procedura, nonostante l’innalzamento dell’età media, l’uomo avrà sempre più bisogno delle macchine, sentendosi sempre più solo e stupido quando non sarà possibile utilizzarle. Un cane che si morde la coda. Perdenti nel grande mare delle notizie, sconfitti dall’ammasso abominevole di dati. E alla fine “le parole non vogliono più dire niente”, sono state svuotate dei loro significati. Tutto è destinato a scomparire. La Logica, la Filosofia, la Dialettica, nemmeno la Fede servono più a decodificare, a decifrare, a sciogliere i nodi. La vita, per renderla più semplice, è diventata più complicata, illeggibile. La loro sconfitta è l’aerofagia che li colpisce e li affligge alla visione di X Factor, di grandi centri commerciali assaltati per i saldi o di Miss Chirurgia Estetica. Forse l’arte di salverà, l’arte di un mimo (Paola Roscioli soffice che pennella movimenti e intona celestiale), l’arte del clown, la bellezza del canto, della musica classica. Gli uomini giocano a dadi con Dio. Perdendo.