I Cavalieri

I CavalieriAristofane cabaret

«Non si salva nessuno nel cabaret aristofaneo di Perrotta. A ritmi folli ed entusiasmanti, lo spettacolo cresce, diventa implacabile, rivela la sua alta qualità nel ritmo che tritura la banalità, l’orrore, rendendola materiale teatrale acre»

Massimo Marino, Controscene

Scanner.it

Mario Perrotta. I cavalieri – Aristofane cabaret

I classici sono contemporanei. Sono classici proprio perché hanno resistito alle intemperie del tempo e non si sono né scalfiti, né arrugginiti, né sciupati. Anzi il passaggio delle ere sulle loro croste ha esaltato il senso rendendolo universale. Hanno ancora i loro colori, l’ironia, la rabbia disincantata, sottratta al mero e bieco contingente, come se fossero stati scritti oggi, perdendosi nel tempo, prendendoselo, piangendo le miserie infime e infinitesimali dell’uomo, quello con la tunica dei tempi di Aristofane, e quello che esplora Marte, tecnologico ma con piercing tribali al naso. Perrotta usa il filosofo greco per descrivere i nostri tempi moderni, come una fotografia, uno scatto, per immortalare meglio chi siamo e dove stiamo. Dove stiamo andando invece è avvolto nel pessimismo. Dietro la macchina da presa ci siamo tutti noi. I “Cavalieri” (secondo passaggio della “Trilogia sull’Individuo Sociale” dopo il “Misantropo” da Moliere, e prima di “Bouvard e Pecuchet” da Flaubert) siamo noi che vorremmo esserlo, che assurgiamo al nostro Cavaliere, onnipresente ed onnivoro, per la soddisfazione dei nostri ideali e bisogni primari. Cavalieri senza patria, ma anche senza arte né parte. E’ infatti un autoscatto, i sorrisi imbarazzati, lo sguardo di circostanza, come a dire ci sono ma non volevo, non avrei dovuto, avevo un appuntamento, ero di fretta, scusate il ritardo, grazie, prego, scusi, tornerò. Ed invece ci siamo tutti dentro, schiacciati, compressi, fintamente sorpresi della deriva che “gli altri si, ma io no”, a scarica barile, a puntare il dito verso il vicino senza guardare la propria trave, le proprie traversie, nell’occhio, camuffato, truccato, improsciuttato. In un condominio Italia fatto da impalcature traballanti, effimere, in working progress fatiscenti, insicure da morti bianche e dondolanti senza fondamenta, un alveare Torre di Babele dove smozzica l’odio come la cenere rossa dalla sigaretta al vento, una junglee fever dove cola astio verso il diverso (dove “diverso” sono tutti gli altri all’infuori di te), tubi e pali che ricordano la messinscena della Gomorra teatrale o la coreografia-video di Jail house rock di Elvis impiantata in una prigione o ancora i “Pali” sopra i quali stanno Scimone e Sframeli per non farsi travolgere dalla melma-merda che scorre sotto implacabile alluvionando le coscienze. La fotografia di Perrotta però ci conduce in quel fango e trambusto e rumore che proprio il teatro ci aiuta a combattere e rifuggire: la Dea televisione. Ce la riporta, ce la incarta, ce la serve: i discorsi, registrati o recitati, utilizzando anche vari dialetti regionali, dai sei attori bravi negli stornelli da Rugantino amari, sono quelli da bar trasportati nei tanti talk show via etere e le citazioni, le parodie, i paradossi, i passaggi sono netti, precisi, lineari: ci sono Porta a Porta e stralci da Studio Aperto, Gerry Scotti e il suo Milionario. E’ la realtà, bellezza, che cosa ti aspettavi? Mi aspettavo la metafora, un giro largo per poi cogliere il punto di sorpresa, la finzione teatrale, non un dritto per dritto che fa perdere forza d’impatto al messaggio sotteso, che, appunto, sotteso non è, ma esplicito, frontale, svelato, chiaro, senza dubbi, senza ombre, senza alcuna sorpresa. Il razzismo diffuso, i preti pedofili, il berlusconismo, le ministre-veline, la cocaina, la crisi economica. E’ la tv, bellezza, che cosa ti aspettavi? Mi aspettavo il teatro, non una riproposizione della scontatezza appresa ed inalata dalla scatola catodica. Un passaggio, un filo diretto che ci consegna, come pizza a domicilio, anche Erba, Cogne, Novi Ligure e Pietro Maso, il magna magna, Maria De Filippi e Striscia la Notizia, tutto il pop, il trash, il debordante naturale, e normalmente accettato, che passa, in un riassunto- ricettacolo- almanacco- contenitore- antologia-album delle figurine del nostro quotidiano, dei peggiori anni della nostra vita. Più Beppe Grillo che Travaglio o Saviano o Report o Anno Zero, però. Un musical cabarettistico petroliniano che non risparmia il meteo, l’oroscopo e il Ponte sullo Stretto, bidimensionale dove manca, volutamente, l’analisi, l’approfondimento, il concetto, uno sguardo altro ed analitico. Il terzo capitolo, invece, sembra un corpo a sé stante, uno spettacolo nello spettacolo, che ha vita propria, lontana e scollegata, in frizione con le due prime parti precedenti. Come una zoomata o un focus, di quelli troppo repentini che fatichi a mettere nuovamente a fuoco l’immagine in primo piano, di quelli che danno mal di mare spiazzanti, Perrotta si concentra, mira, punta ad uno dei problemi affrontati nell’infilata, nella mostra del repertorio della mercanzia appena descritta. Tra i problemi e cancri che affliggono l’Italia l’autore di “Italiani cincali” sceglie la violenza sulle donne con dialoghi di botte casalinghe accettate e condivise, tra voci che fanno il verso nostalgico alla Magnani, alla Vitti, a Gabriella Ferri alla Loren. Col colpo di coda Perrotta riesce a rimettere la barca in acque tranquille (paradossalmente erano troppo serene prima perché non dicevano né svelavano niente di nuovo sotto il sole perché conclamate) con l’ultimo j’accuse alla platea – pubblico – popolo per una presa di coscienza e consapevolezza, un “I want you” dello Zio Sam, un inno alla disobbedienza verso i nuovi codici immorali ed illegali, un ritorno all’etica ed al rispetto, un omaggio alla rivoluzione di questi recenti canoni sguaiati e dopati, un Ave al vento nuovo, a prendersi le proprie responsabilità. Il teatro (non) sono solo canzonette. Voto 7

Il Giornale del Friuli

I Cavalieri. Aristofane Cabaret

Fa parte della “Trilogia sull’individuo sociale” lo spettacolo con cui Akròpolis inaugura il 2012 al Palamostre di Udine. È un ottimo inizio d’anno con I Cavalieri — Aristofane Cabaret, seconda parte della “Trilogia” la cui qualità, del resto, è stata riconosciuta lo scorso dicembre con l’attribuzione del Premio Ubu. Il progetto, ideato e realizzato da Mario Perrotta con la Compagnia del Teatro dell’Argine, descrive, in particolare con I Cavalieri, l’Italia dei nostri giorni con tutte le sue miserie e la galleria di politici, faccendieri, corrotti e corruttori, preti pedofili, escori, usurai, finanzieri… l’elenco sarebbe lunghissimo e riguarderebbe fatti e persone che tutti conoscono e che fanno indignare sempre la medesima parte della popolazione, mentre trovano indifferente, scettica, complice o perfino gratificata l’altra parte. Insomma chi ha voglia o coraggio di guardarsi attorno e soprattutto chi ha l’onestà di non negare l’evidenza non trova nulla di inedito nello spettacolo di Perrotta. Lo scandalo, semmai, sta nella gente che sembra disposta a ingoiare tutto senza alcun conato. È su questo versante che lo spettacolo vira, animato dall’utopia, dichiarata fallimentare in partenza, di far capire come stanno le cose e perché ci si abitua a convivere con la menzogna e la manipolazione. Perrotta non si esaurisce nella denuncia (sarebbe il già visto in decine di occasioni) ed esprime soprattutto il rammarico, la rabbia, lo sconcerto, la tristezza di chi si ritrova impotente a far accettare la verità più ovvia. Un simile approccio ai temi trattati restituisce il giusto peso a denunce inflazionate che riacquistano sapore perché veramente partecipate e condite con quella giusta dose d’ironia che la forma del cabaret consente. La battuta iniziale, “questo non è Aristofane”, sembra rivolta al filologo classico perché allo spettatore comune, sia pure digiuno di drammaturgia antica, è subito evidente che se il commediografo ateniese potesse descrivere l’Italia di oggi non direbbe cose gran che diverse da quelle dette e cantate dai sei bravissimi attori. Aristofane c’è (e come!), come un modello “rovistato e scorretto” nella forma e sostanzialmente rispettato e rigenerato nella sostanza. Una nuda struttura di tubi “innocenti”, microfoni ad asta oppure “gelati” e la musica in scena di Mario Arcari bastano agli attori per illustrare in quattro capitoli le numerose responsabilità e le insufficienze di tutti gli Italiani, compresi spettatori e teatranti. Le diverse flessioni dialettali suggeriscono che nessuna “piccola patria” può vantare la propria verginità e qualificarsi come eccezione alla deriva generale, tant’è che spesso, ora l’uno, ora l’altro dei cabarettisti dichiara di voler abbandonare per sempre quest’Italia insopportabile. La commedia di Aristofane dà lo spunto per il secondo capitolo dello spettacolo, “L’uomo nuovo”, in cui il popolo deve scegliere il proprio leader. Lo scontro fra Paflagone e il salsicciaio per la presidenza del consiglio ateniese si traduce in un talk show televisivo in cui si confrontano Berlusconi e Bersani (contaminato con Beppe Grillo) con i relativi stacchi pubblicitari gestiti dalle sorelle Badoglio. Ed è proprio la televisione presa particolarmente di mira perché strumento impiegato per rincretinire i cittadini con una miriade di programmi trash, la spazzatura di cui gli italiani sono sempre più ghiotti. Nel terzo capitolo la “Lisistrata” suggerisce alle donne lo sciopero del sesso per costringere gli uomini a fare meno “cazzate” in pubblico e in privato. Per quanto riguarda la dirigenza politica, un’altra commedia aristofanesca, “Le donne al parlamento”, assicura che il gentil sesso difficilmente si renderebbe artefice delle scempiaggini e della volgarità degli attuali parlamentari maschi e delle poche femmine presenti in aula perché, sotto sotto, anche loro sono uomini, o devono la carica a ragioni che il pudore consiglia di sottacere. L’ultimo capitolo riprende il primo, “Condominio Italia”, e termina con i sei attori (il volto mascherato alla maniera della Commedia dell’Arte) che mimano le azioni del mangiare, fottere, rubare, bere e schiattare defecando. A questo dovrebbe limitarsi la vita dei cittadini secondo i precetti della propaganda demagogica orchestrata da un potere irremovibile nel censurare e criminalizzare chi cerca di risvegliare la coscienza di un popolo ipnotizzato dal falso e dal non senso. Prolungati gli applausi.

Il Gazzettino

Aristofane reso attuale dalla prova di Perrotta

È lo spettacolo che poche settimane fa si è aggiudicato il prestigioso Premio Ubu (in pratica, l’Oscar del teatro italiano) a regalare tante risate e inquietanti spunti di riflessione ad una nuova tappa del calendario di Akropolis.12, rassegna di teatro civile del Teatro Club di Udine. Sulle tavole del Palamostre, lo scorso sabato 14 gennaio, é andato infatti in scena I Cavalieri – Aristofane Cabaret, divertente e intelligente rilettura della comicità del commediografo della Grecia classica, che si rivela sorprendentemente attuale nell’interpretazione di Mario Perrotta (che ha curato anche allestimento e regia), assieme a Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Maria Grazia Solano, Giovanni Dispenza, Donatella Allegro, e con le musiche dal vivo di Mario Arcari. Sembra quasi incredibile, infatti, quanto questo testo di 2500 anni fa, con pochi ritocchi atti a rievocare i fatti della cronaca più recente, possa essere una feroce ma quanto mai azzeccata fotografia dei vizi dell’uomo, del suo conformismo, della sua propensione a rifugiarsi nei luoghi comuni, nella sua propensione all’ipocrisia, all’adulazione, alla corruzione. Il tutto narrato con ritmo e umorismo, a più voci magistralmente interpretate tra le quali si intravedono palesi «infiltrazioni» di commedia dell’arte, riferimenti all’avanspettacolo e alla tradizione petroliniana, suggestioni quasi brechtiane, in un mix di comicità urticante, irriverente e tutt’altro che scontata. Lo spettacolo, assieme al molièriano Misantropo e al prossimo Bouvard e Pécuchet di Flaubert, è parte della “Trilogia dell’individuo sociale”, percorso che Perrotta ha intrapreso appunto per esplorare, con il linguaggio diretto, efficace e allusivamente sarcastico del cabaret, la disgregazione della società contemporanea, sempre più dimentica del diritto/dovere del senso di responsabilità individuale.

Il Domani

Perrotta suggerisce lo sciopero del sesso

Sarà per il fatto che a Bologna la ricerca di un “uomo nuovo” è una caccia aperta ormai da mesi, e che tra l’altro, in passato portò in auge proprio un“carnezzaro ”(cioè un macellaio) a cui per cinque anni è spettata la fascia di primo cittadino. Oppure forse sarà per quel giuramento di Lisistrata, il primo “sciopero del sesso” della storia, che attualizzato ai giorni nostri sembra suggerire la più eversiva delle risposte all’ormai celebre kamasutra berlusconiano, il biglietto da visita italiano oltreconfine che ha rimpiazzato i ben più degni pizza e mandolino. Fatto sta che la rilettura che Mario Perrottafa fa de I Cavalieri i di Aristofane diverte, solletica, affascina sin dalle prime battute, catturando poi attenzione e simpatia del pubblico fino alla chiusura del sipario. Un Aristofane “rovistato e scorretto”, spiega lo stesso Perrotta all’esordio sulla scena, che intreccia i temi dell’antica commedia coni tormentoni del nostro mondo catodico, fotografato nel pieno della litania sulla crisi (“Madonna che crisi!”).
Il testo insomma è rimaneggiato ad arte, e regia e cast vi si muovovono con bravura e intelligenza, guadagnand ominuto dopo minuto il grande applauso del finale.

Bolognateatro.it

I Cavalieri – Aristofane cabaret

Finalmente il cabaret! La parola che Perrotta utilizza nel titolo è quanto mai azzeccata e tutt’altro che pretenziosa: lo spettacolo usa il linguaggio del cabaret classico (ricordate Fo, Gaber, Iannacci, la Monti…) e lo fa con bravissimi attori (all’occorenza anche sorprendenti cantanti) e un musicista di tutto rispetto (M° Mario Arcari).
Breve cenno alle musiche, già che ci siamo: filologicamente in linea con la tradizione del cabaret italiano, strumenti semplici (chitarre, rullante, tamburello, fisarmonica, poi due guest star: sax e clarinetto) e melodie molto orecchiabili, al limite del già sentito, che non hanno la pretesa di essere hit da classifica, ma sono perfettamente utili al raggiungimento del risultato finale.

Se avevate visto Misantropo sempre di Perrotta ricorderete una scenografia inesistente, fatta da un semplice fascio di luci rettangolare che circonda il centro della scena come a creare un dentro e un fuori, quasi come una gabbia. E in qello spettacolo ricordo di aver percepito una rabbia di Perrotta nei confronti della società (ricordo che si tratta di una trilogia sull’individuo sociale di cui il Misantropo era il primo, questo su Aristofane è il secondo). Bene, un anno dopo, quel fascio di luce rettangolare si sviluppa in altezza, creando un sopra e un sotto, un dentro e un fuori, un palco e una platea. Questa in sintesi l’Italia vista da Perrotta che utilizza gli schemi Aristofaneschi ma riscrive tutto adattando la feroce satira del commediografo greco verso l’Atene di allora (era già una democrazia) alla nostra Italia (è ancora una democrazia?).
A proposito di collegamenti: per tutto lo spettacolo ho avuto dei flash di Ettore Petrolini, sia per lo stile sia per i contentuti, come se la satira di allora, inserita nel contesto di un regime, fosse scritta oggi, in un paese che non è sotto un regime, o forse no? Questo dubbio mi è venuto quando, vedendo questo divertentissimo show guidato dal demiurgo finalmente libero da gabbie Mario Perrotta, mi sono accorto di questo: nel ventennio si usava il pronome “lui” per indicare Mussolini. Oggi, se in un dibattito qualunque (o al telegiornale) sentiamo parlare di lui, sappiamo tutti a chi ci si riferisce.
Spettacolo da vedere, Perrotta ha bisogno di questa libertà per esprimersi al meglio. Voto: 8 con lode.

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