Atto finale

Atto finale

«Uno spettacolo coeso, denso di contenuto, avvincente e convincente.
Uno spettacolo dove la satira della stupidità umana è quanto mai feroce»

Domenico Rigotti, Avvenire

la Repubblica

Dialogo con Flaubert sulla solitudine del web

Vi trovate in Puglia, e di sera avete un incantamento per una giovane funambola piena di grazia che con un ombrellino in mano ferma il tempo e danza su una fune al culmine di un tenero repertorio famigliare sotto un tendone (protagonista il Cirque-Théâtre Rasposo). Siete anche reduci dall’ aver vissuto un’ impresa virtuale in panni di spettatori-performer dotati di un visore che simula attorno un film (è la tecnica della compagnia inglese Pixel Rosso). Altrove avete spiato col cuore un’ epopea del profondo Sud ( Iancu, un paese vuol dire dei Cantieri Koreja). Allora siete al Festival Internazionale di Andria “Castel dei Mondi”. Nel senso che questa impresa, giunta alla 15ma edizione, dedicata a Franco Quadri, diretta fino ad ora da Riccardo Carbutti, è un’ efficace (diremmo anche generosa) macchina esploratrice di nuovi linguaggi colti e popolari, è una “piazza” estiva meridionale dove c’ è posto per un ampio scenario dal circo alla multimedialità, con la prassi consolidata di dare sostegno a nuove compagnie, vedi ricci/forte, Babilonia Teatri, Teatro Sotterraneo, Fibre Parallele, Gianfranco Berardi, Roberto Latini. A mettersi scenicamente di traverso tra cultura letteraria e strumenti e immaginario del web è, in questo festival, Atto finale-Flaubert che Mario Perrotta ha scritto ispirandosi (esistenzialmente) al romanzo “Bouvard et Pécuchet” di Flaubert, facendo ampio uso di un’ interazione tra parlato e maxi-schermate di Google. Dello spettacolo, che conclude una “Trilogia sull’ individuo sociale”, Perrotta è anche regista e co-interprete con Lorenzo Ansaloni, e la condizione umana e teatrale odierna è quella di due drop out che si auto-emarginano, una coppia beckettiana di transfughi che si isolano e cercano online (non trovandole) le ragioni della vita e di un oltre. Muniti di volti gessosi e vampireschi, di tastiere, di ansie ricercatrici su Internet, i due (con appendice di un altro doppio intrattenitore) giungono a un fallimentare suicidio in una sorta di futuristico Golgota pasoliniano, declinando infine una solitudine che cita Leopardi. Un caso di drammaturgia binaria che celebra il vuoto.

Myword.it/teatro

Atto Finale – Flaubert

Capitolo conclusivo di una trilogia premiata con l’Ubu, la pièce di Mario Perrotta si muove al confine tra “Bouvard e Pécuchet” e “Aspettando Godot”. Di cui pare a tratti l’ideale prosecuzione

La vera domanda da porsi – e non si tratta di un’oziosa questione formale – è se questo Atto finale – Flaubert di Mario Perrotta, l’interessante spettacolo che chiude la sua “trilogia dell’individuo sociale” iniziata col Misantropo di Molière e proseguita coi Cavalieri di Aristofane, sia da considerarsi una riscrittura di Bouvard e Pécuchet nello stile di Samuel Beckett, o un rifacimento delle opere di Beckett che passa attraverso il romanzo incompiuto di Flaubert. Personalmente propendo per la seconda ipotesi: troppi richiami, troppe citazioni – e troppo esplicite – nei dialoghi e nella struttura stessa del testo sembrano rimandare allo scrittore irlandese. A ben vedere persino il titolo potrebbe suggerire un incrocio fra Atto senza parole e Finale di partita.

Per aspetti si potrebbe addirittura sostenere che Atto finale – Flaubert cominci là dove Aspettando Godot finisce, o per meglio dire dove quest’ultimo resta in qualche modo in sospeso: i due personaggi flaubertiani pensano a darsi la morte (“Suicidiamoci, ti prego”) esattamente come ci pensano Vladimiro ed Estragone (“e se ci impiccassimo?”). Ma, al di là dell’evidente parallelismo, ho come l’impressione che tutta questa densa e feroce messinscena non sia altro che un lungo e articolato tentativo di interrogarsi sulle ragioni per cui Didi e Gogo – e come loro Bouvard e Pécuchet – a un certo punto provino il desiderio di togliersi la vita.

In questa pungente versione di Perrotta i due impiegati della Parigi di fine Ottocento diventano degli odierni internauti che si isolano volontariamente, in un luogo imprecisato, per cercare in rete delle risposte al loro disperato bisogno di dare un senso alle proprie esistenze. Con le tastiere appese al collo, registrando in video e rivedendo in seguito – l’azione si protrae dal 2010 al 2060 – le varie tappe del loro percorso di conoscenza, esplorano Google per trovarvi un barlume di speranza, ma ne ricevono solo cattive notizie: Dio è morto, il linguaggio è morto, il sapere è solo un caotico accumularsi di contraddizioni. E forse, in fondo, anche tutto questo non è che un equivalente web dello sconclusionato monologo di Lucky, il servo-filosofo di Aspettando Godot.

“Sconfitti nella parola, sconfitti nel silenzio”, vengono per giunta investiti senza pietà dall’incessante flusso di brutture del mondo attuale, squallidi concorsi di “miss chirurgia estetica”, inquietanti provini di X-Factor. L’unico spiraglio di salvezza sono due poetiche figure silenziose, vagamente vestite alla Marcel Marceau, che comunicano tra loro con l’alfabeto dei sordomuti: una mima pronta anche a intonare canzoni della Piaf e il musicista Mario Arcari che esegue al piano le “variazioni Goldberg”. Riusciranno, i due, a risalire dal loro inferno? Rivedranno, prima o poi, quell’ideale luna del pastore errante leopardiano, citata a conclusione dello spettacolo? Forse, ma c’è da dubitarne, visto che il tono prevalente è quello di un acre pessimismo.

L’intero testo, non a caso, è d’altronde improntato a un linguaggio ispido, un po’ sghembo, che sembra ispirarsi al taglio cupamente cabarettistico del lavoro su Aristofane: Perrotta, leccese, e Lorenzo Ansaloni, bolognese, calcano vistosamente sulle rispettive cadenze dialettali, con l’intento di accostarsi ai personaggi in una chiave dichiaratamente “bassa”, quasi pasoliniana. I due vestono delle specie di marsine alla Flaubert, ma stinte, ingrigite come i loro volti. L’approccio scelto con coerenza dall’attore-regista non è in sostanza – e non vuole essere – né gradevole né accattivante: il suo è uno sguardo sul nostro tempo che stride, disturba. È l’espressione di un’insofferenza da cui dovrebbe nascere una catartica voglia di riscatto.

Avvenire

Gli stolti tuttologi di Flaubert schiavi del web

Rieccoli quei due assurdi, bizzarri, straordinari personaggi usciti dalla fantasia estrema di Flaubert che corrispondono ai nomi di Bouvard e Pécuchet. Li conosciamo bene. Due poveri scrivani un poco sciocchi, vittime del conformismo, che un bel giorno si mettono con ingenuo entusiasmo a studiare tutto lo scibile umano. E tutto vogliono imparare. Sì che non v’è campo del sapere nel quale non si avventurino. Hanno cieca fiducia nella scienza e nelle idee cartesiane.
E non solo.
Ma questa volta, anche se si presentano ancora in sgualcita redingote, non li troviamo più rintanati fra montagne di libri in una vecchia fattoria normanna. Tutto, evviva la cybernetica!, si può imparare grazie a Google e Wikipedia. Sono diventati Bouvard e Pécuchet figli del nostro tempo, ma anche di un futuro prossimo venturo, visto che l’azione marcia fino al 2050. I due piccoli impiegati parigini in questa felice e originale versione di Mario Perrotta (molti naturalmente gli episodi tagliati, ma mantenuti quelli necessari all’oggi) si trasformano in due schiavi di Internet impegnati in ripetitivi esperimenti destinati naturalmente, come nell’originale, a fallire. Diventano due internauti compulsivi i quali alienano l’esistenza smarrendosi in una realtà virtuale in perenne cambiamento.
Con questa rilettura o, meglio, riscrittura del capolavoro incompiuto di Flaubert chiude Mario Perrotta la sua “Trilogia dell’individuo sociale” iniziata con Il Misantropo di Moliére e continuata con I Cavalieri di Aristofane e ci dà con Atto Finale – Flaubert, uno spettacolo coeso, denso di contenuto, avvincente e convincente.
Uno spettacolo dove la satira della stupidità umana è quanto mai feroce (taglienti le battute e quasi sempre a colpire nel modo giusto), ma tutto a correre lungo un arco di umorismo sottile, tributario a volte delle vecchie comiche del cinema muto.
Se i nostri due sciatti eroi paiono assomigliare o farsi antesignani di personaggi beckettiani (Ham e Clov o Vladimiro ed Estragone) a volte sembrano imitare i sublimi Stanlio e Ollio. Superba anche la parte visiva. Ottimo soprattutto il video iniziale dove i due protagonisti s’affacciano con le facce biaccate e sforano lo schermo per farsi poi piccoli eroi del vuoto e della solitudine. E in perfetta osmosi, in continua gara di bravura fra loro, sono Perrotta e il suo partner Lorenzo Ansaloni.
Il primo un Bouvard dall’accento leccese, il secondo un Pécuchet dalla carnosa parlata bolognese.
Con loro Paola Roscioli nel ruolo muto di una serva che alla fine con una canzone della Piaf spezza l’incantesimo del web. E Mario Arcari che al pianoforte esegue (eccellente trovata) le variazioni di Goldberg anche lui compulsivamente a spezzare l’incantesimo cybernetico.
Il debutto al Festival dei Mondi di Andria che alla sua 15ma edizione va sempre più rivelandosi come vetrina fra le più interessanti di quel “nuovo teatro” di cui Perrotta è senza dubbio uno della figure più originali.

Rumorscena.it

La vita è un “Atto unico” che non finisce mai. Perrotta rilegge con successo Flaubert

Di opere incompiute nella storia della letteratura e delle arti in generale ve ne sono molte, e tra queste a guardar bene, risultano anche dei capolavori veri e propri. Come se l’incompiutezza dell’autore, abbia poi permesso, un’immortalità superiore alla norma e all’universalizzazione artistica del suo lavoro. Una di queste è il romanzo Bouvard et Pécuchet di Gustave Flaubert deceduto all’improvviso l’8 maggio del 1880, senza averlo potuto terminare dopo molti anni in cui si era dedicato con fatica e uno sforzo immane nelle ricerche. Lo scrittore aveva collezionato appunti, scritti, opinioni raccolte nei salotti borghesi dell’epoca, una mole infinita di spunti che, una volta, riassunti potevano essere definiti come un “sciocchezzaio”, come lui lo aveva inteso. Uno scrittore che aveva letto oltre 1500 volumi, oltre che articoli di giornali e riviste.

Bouvard et Pécuchet sono due impiegati e dopo essersi conosciuti a Parigi diventano amici decidendo di lasciare la città per trasferirsi in campagna. Inizia così un lungo viaggio fisico quanto metaforico e straniante, apparentemente catastrofico dove la “tragedia” si trasforma in comicità esilarante, dentro i meandri del sapere umano. I due uomini affrontano tutte le discipline umane e scientifiche possibili e immaginabili. Dall’archeologia alla medicina, passando attraverso lo spiritismo e l’astronomia. Non risparmiano nulla e non si risparmiano finché giungeranno faticosamente all’agognato ma non realizzato proposito, di togliersi la vita. A Rouen in Francia esiste un archivio dove sono conservati otto tomi rilegati di 300 fogli ciascuno: all’interno si trovano tutti i documenti utilizzati da Flaubert per dare vita alla seconda parte del suo romanzo. Dentro quella miriade sterminata di informazioni, le prove servite a confutare la sua idea della stupidità umana . Lui per primo ne era profondamente disgustato e terrorizzato di venirne contagiato. In pratica la sua ricerca doveva scovare nelle pieghe di ogni disciplina della conoscenza e del sapere teorico/pratico, qualunque stupidità fosse stata scritta e postulata.

Il fine era quello mosso da spirito di vendetta. Una specie di “stupidario umano” dove ci sono finiti dentro pregiudizi sociali, religiosi e politici, fanatismi, l’assenza di rigore scientifico, la superficialità delle opinioni. Bouvard et Pécuchet sono gli eredi costretti a vivere in eterno anche dopo la morte del loro ideatore, impossibilitati a trovare la pace eterna, per la mancanza di un finale. Quello che ora Mario Perrotta ha creato per la scena teatrale con Atto finale-Flaubert (terzo e conclusivo lavoro della Trilogia sull’individuo sociale, dopo Il Misantropo -Molière e I cavalieri – Aristofane cabaret) che è valso all’attore e regista il Premio Speciale Ubu 2011. Un Atto finale che fa dire ai due protagonisti (lo stesso Perrotta insieme a Lorenzo Ansaloni) “se non moriva l’autore, magari lo scriveva ancora ‘sta bestia di vita e ci faceva murire a tutt’e due. Invece ci tocca vivere”. Come se fossero, anzi lo sono, immortali. Due stralunati e goffi personaggi intenti a “vivere” loro malgrado, o come oggi è in uso nel linguaggio corrente, “a loro insaputa”.

Vivono in una contemporaneità traslata da quella flaubertiana fatta di libri, carte, enciclopedie, a quella del mondo degli internauti. Sono dotati di tastiera regolamentare per computer e navigano in rete per scovare informazioni, computare parole in cerca di spiegazioni. Più cercano e più sono delusi. La sete di conoscenza li porta sempre più a deprimersi. Ogni assunto teorico o spiegazione scientifica, regole e codici, non sono mai sufficienti a dare una risposta esaustiva. Il loro è una partita a scacchi del sapere e del voler capire, ma le mosse di ognuno non arrivano mai ad una vittoria finale. Finiscono per fare un viaggio proiettato nel futuro: dal 2010 al 2060. E più vanno avanti e più si smarriscono per i meandri di una cultura superficiale e contraddittoria. Ogni sapere conquistato viene smentito subito dopo. Sembra tutto destinato a scomparire e loro stessi lo dicono: “Il linguaggio non coincide mai con lo sguardo. Il linguaggio è morto. Pure Dio è morto”, mettendo di mezzo pure Cartesio e il matematico Piergiorgio Odifreddi che lo smentisce. Come dire la storia e la cultura man mano che avanza trova le prove per ridiscutere e smentire prove e teorie del passato. L’uomo smentisce se stesso? Albert Einstein che di fisica e filosofia se ne intendeva viene preso ad esempio quando dice che “solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, e non sono sicura della prima”.

Gli fanno da controcanto Bouvard e Pécuchet alias Perrotta e Ansaloni, quando sentenziano nel loro fare dolente: “Forse sarebbe meglio finire il mondo …. forse sarebbe meglio finire noi”. Questa è la soluzione auspicata dai due falliti cercatori di prove esistenziali, a supporto di una vita che valga la pena vivere, quella del suicidio. Il lor pessimismo cosmico non conosce tregua, tanto vale farla finita allora. Non c’è altro da fare e con quei visi sempre più emaciati, pallidi, abbigliati come due poveracci senza arte né parte. Tentano di impiccarsi alla corda ma nemmeno questa estrema soluzione trova successo. Diventa insopportabile vivere sapendo che intorno a loro esiste solo una sub cultura sempre più scadente e mediocre, fatta di televisione spazzatura, gossip, e format dove guardare dal buco della serratura. Non è vita questa e non serve scomodare la sociologia più avanzata per crederlo. In Atto finale – Flaubert non c’è spazio per credere in un mondo migliore. E la loro solitudine è la tragedia dell’uomo contemporaneo, un “individuo sociale” in lotta perenne tra il suo stato di individualista (e di conseguenza egoista) e quello “animale sociale”, condizione indispensabile per poter vivere equamente e democraticamente in una società dove la condivisione dei valori e dei doveri, permette la sopravvivenza della specie umana.

In Atto finale -Flaubert sembra non esistere nessun antidoto alla deriva di una società in caduta libera, dove ogni regola etica o credo morale possa sopravvivere. Non basta nemmeno a confortare la voce di Paola Roscioli che addolcisce con le sempre eterne canzoni di Edit Piaf o la musica eseguita dal vivo da Mario Arcari impegnato nelle “variazioni Goldberg” di Bach, lui si immortale. Viene da pensare a proposito di vita che Nietzsche ha lasciato scritto : “Senza la musica la vita sarebbe un errore”. Perrotta da vita ad una messa in scena dai toni volutamente sarcastici e taglienti, perfino caustici. La sua intonazione è pugliese-leccese, quella del suo compare Ansaloni è bolognese. Sono due uomini qualunque, come tanti, senza aspirazioni particolari. Forse mediocri come è la vita che li circonda. L’idea drammaturgica che si rifà al testo di Flaubert (dove la riduzione per il teatro poteva essere maggiore e lo spettacolo ne gioverebbe in termini di durata) è quella di portare a conoscenza dell’uomo di oggi di come sia ancora attuale il messaggio originario. C’è come una sorta di fatalismo nell’accettare l’ineluttabilità del destino umano, incapace di affrancarsi totalmente dalle storture e dalle brutture di questo mondo. Non lo potrà mai fare e soccomberà? Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto ci si interroga e ci si diverte. E non è poco di questi tempi.

Libertà

Bouvard e Pécuchet nella “trappola” di Internet

Fucina di sperimentazioni, di linguaggi e modalità creative eterogenee, in costante equilibrio fra vocazione internazionale e omaggio alle radici popolari del territorio pugliese, il festival teatrale “Castel dei Mondi” di Andria, giunto alla quindicesima edizione e diretto con intelligenza da Roberto Carbutti, si rivela sempre più contenitore prezioso di offerte teatrali curiose, eccentriche, talvolta spiazzanti. Dove, insomma, il teatro contemporaneo può specchiare la sua estrema vitalità pur in tempi di crisi.
Ma se dovessi rintracciare nel variegato calendario di spettacoli visti (talvolta agli antipodi come modalità creative e di linguaggio) un motivo generalizzato di riflessione, lo troverei in quel senso di solitudine e di disagio esistenziale che pervade l’uomo di oggi. (…)
La proposta forse più interessante del festival arriva proprio in coda alla rassegna (non a caso il titolo Atto finale – Flaubert). Si tratta di una rielaborazione- riscrittura di Bouvard et Pecuchet, capolavoro incompiuto di Flaubert, ad opera di Mario Perrotta, qui in veste anche di regista e interprete, che chiude così la sua “Trilogia sull’individuo sociale” composta anche dal Misantropo di Molière e dai Cavalieri di Aristofane, proposti nelle stagioni scorse. Occorre dire subito che questa operazione presentava un grado di “pericolosità” molto elevato. C’era il rischio di perdersi tra le volute di un linguaggio di ricercata formalità e di restare impigliati nella fitta ragnatela degli episodi, così tanti da diventare, nel lavoro di Flaubert, una sorta di caustico, ironico, meraviglioso abbecedario della stupidità umana. Un pericolo non scongiurato, per esempio, in altri allestimenti. E invece Perrotta che fa? Utilizza una chiave di lettura sorprendente, spiazzante, ma al tempo stesso decisamente efficace per restituirci il cuore del pensiero flaubertiano. Bouvard e Pécuchet, interpretati rispettivamente dallo stesso Perrotta (con accento leccese) e Lorenzo Ansaloni (che si avvale invece di una parlata bolognese) da bizzarri impiegati parigini sommersi nello studio di montagne di libri alla disperata ricerca delle ragioni della vita diventano qui due internauti solitari armati di tastiera impegnati a rincorrere i significati della propria esistenza attraverso le pagine del web. Sulle loro sedie, con i volti resi grotteschi dalla biacca, agghindati con livree sdrucite, con tanto di pancione, i due “pestano” compulsivamente sui tasti e dialogano “assurdamente” tra loro interrogando la Rete, un gigantesco schermo che domina la scena su cui scorrono le loro immagini speculari e le schermate delle interrogazioni Google (geniale). Dio, Cartesio, Einstein, Facebook, tutto si mescola in un’ansia ricercatrice online mai doma che lascia i due impotenti di fronte al mistero della vita, incapaci persino di suicidarsi. Siamo nel 2060, in un mondo che assomiglia tanto ad una landa beckettiana. Ecco, Perrotta sembra dire: per capire Flaubert mi sono rivolto al profeta dell’incomunicabilità. E i suoi assurdi scrivani potrebbero essere proprio Vladimiro ed Estragone calati in un film dell’epoca del muto. Accanto ai due protagonisti, da ricordare le due presenze mute di Paola Roscioli, improbabile servetta che canta la Piaf (bene) senza riuscire a “distrarre” i due, e Mario Arcari, musicista di razza, qui impegnato al piano nelle Variazioni Goldberg. Spettacolo intelligente, maturo, denso di significati, ottimamente interpretato, che vorremmo rivedere in qualche teatro “altolocato” a fronte, spesso, di proposte deludenti.

Doppiozero.com

Bouvard e Pecuchet 2.0 di Mario Perrotta

Sono due clown beckettiani con calzoni troppo corti, visi troppo pallidi e occhiaie troppo pronunciate, grandi pance di chi sta sempre incollato a una sedia i Bouvard e Pecuchet di Mario Perrotta, premio speciale Ubu 2011 per la Trilogia dell’individuo sociale, chiusa da questo spettacolo ispirato dal romanzo incompiuto di Flaubert. Sono, quei due, la nostra umanità in una Atto finale senza fine, una ricerca di senso senza intelligenza, inchiodati a una tastiera che pende dal petto, in dialogo con i loro doppi virtuali e altri fantasmi del mondo proiettati alle loro spalle, onnivori, bulimici di informazione, di domande che non riescono ad avere risposta. Quelle loro pance, anzi, somigliano a quella del divoratore Ubu re, mangiatore di uomini, distruttore di se stesso.
Si sono ritirati dal mondo non per confezionare marmellate o per studiare sui libri geografia, astronomia, mitologia, storia antica, medievale, moderna, contemporanea eccetera, in un sapere che rimanda continuamente a altro sapere, spalancando l’abisso dell’ignoranza e dell’impotenza. Questa volta le loro domande inani sull’umanità le rivolgono a un computer e alla rete, dove si trova di tutto e dove infinitamente, labirinticamente, ci si smarrisce dalla vita.
Atto finale. Flaubert conclude la sfida che l’attore, noto per i suoi viaggi solitari nella memoria della nostra emigrazione, da Italiani cincali! a La turnàta fino a Odissea, ha lanciato da qualche stagione. È quella di tornare insieme con altri sul palcoscenico, in compagnie più o meno numerose, per parlare di nodi del nostro mondo attraverso i classici. Ha narrato il rapporto tra individuo e società mettendo in scena un Misantropo di Molière virato al nero. Ha affrontato, come in una acido cabaret, la degradazione della politica partendo dai Cavalieri di Aristofane. E ora, per l’atto finale, affronta la possibilità odierna di un sapere universale, come un rinchiudersi dell’individuo in un bozzolo di sapere, protettivo, onnipervasivo, ma isolante. I due personaggi, come Hamm e Clov di Finale di partita di Beckett, sono separati dal mondo. Questa volta per loro scelta. Per andare più dentro al sapere. Iniziano nel 2010 e rimarranno là, imbalsamati, ogni tanto distratti dalle canzoni e dalle musiche di una clown cantante e di un pianista, che cercano forse di strapparli dalle loro sedioline girevoli, senza riuscirci. Fino al 2050, al 2060, fino all’infinito. In cerca di una sapienza che si accontenta, nella fine senza mai fine, di dichiarare la stupidità del tutto, litigando, strepitando, facendo battutine di quart’ordine, giocando con le parole, esaurendosi in un sonno peteggiante.
Spettacolo amaro, forse il più duro dei tre, nonostante lampi di cabaret. Gli attori si riducono a burattini, a disossati manichini, vittime di uno spettacolo dell’informazione trionfante, di una cultura dominata dalle parole senza cose, in un ridicolo pungente.
Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni sono questi Buvard e Pecuchet 2.0, entrambi calatissimi nella parte, lunari, ectoplasmatici, petulanti uomini web. Mario Arcari crea atmosfere musicali in accordo o contrasto con le situazioni con quell’esplorazione continua del sonoro possibile che sono le Variazioni Goldberg di Bach, a cui Paola Roscioli dà voce, per poi trasformarsi in chanteuse. Il tutto in dialogo con le immagini video di Chiara Idrusa Scrimieri.
La faticosa impresa della Trilogia appare ancora più encomiabile perché perseguita in tempi di crisi, quando altre compagnie riducevano il numero degli attori e delle produzioni. È stata realizzata dal Teatro dell’Argine, in quest’Ultimo atto in coproduzione con i festival Castel dei Mondi e Lunatica, con la Provincia di Massa Carrara, il Teatro Pubblico Pugliese e l’Unione Europea.

Hystrio

Castel dei Mondi: uno sguardo a 360° sulla scena contemporanea

The irrepressibles, Cirque-Théâtre Rasposo e Mario Perrotta tra i protagonisti della 15a edizione.
La trasposizione teatrale di opere letterarie, si sa, racchiude sempre l’insidia d’un esperimento che può anche non essere felice. Accadde anche a Luigi Squarzina e a Tullio Kezich, allorché, adattando per le scene quello straordinario e del tutto singolare romanzo che è Bouvard et Pécuchet, non riuscirono a prescindere del tutto da una derivazione condizionatrice. La rappresentazione, vincolata dalle esperienze dei due piccoli
eroi che, vittime del conformismo, un bel giorno si mettono con ingenuo entusiasmo a studiare tutto lo scibile umano, nonostante che sulla scena ci fossero due attori di grosso calibro come Tino Buazzelli e Glauco Mauri, rivelava una insistenza scandita che aveva poca familiarità con lo sviluppo drammaturgico. Non a questo pericolo mi pare sia andato incontro Mario Perrotta nel riaffrontare il capolavoro flaubertiano e nel rimettere in pista quei due assurdi, bizzarri, e, forse, personaggi beckettiani ante litteram, che appunto rispondono ai nomi di Barthelemy Bouvard e Cyrille Pécuchet. Ieri zelanti scrivani che grazie a una ricca eredità si rintanano in una fattoria normanna, oggi due impiegatucci o forse precari che si danno a vizi cibernetici. Maniacalmente a gettarsi su google. A compulsare Wikipedia. Lo spettacolo trova nei suoi novanta minuti di divertente percorso una sua estrosa vitalità, perché Perrotta compie un ribaltamento completo. Salva il traliccio essenziale, ma riscrive con penna nuova, ma non meno sarcastica, coinvolgendo i due protagonisti dentro il nostro mondo tecnologico. Sono due internauti compulsivi che la fantasia del regista fa sbucare da un video (folgorante avvio) con volto stralunato e coperto di biacca. Due creature che, strappate al passato, sono proiettate nel futuro, pronte ad alienare la loro esistenza smarrendosi in una realtà virtuale in perenne cambiamento. Con questo omaggio alla grandezza di Flaubert, Perrotta conclude la sua Trilogia dell’individuo sociale aperta con Il Misantropo di Molière e portata avanti con I Cavalieri di Aristofane, e lo spettacolo avvince e convince forse più dei due capitoli precedenti. La satira della stupidità umana a emergere quanto mai feroce (frecce avvelenate molte battute, anche se qualcuna magari poi scade nell’ovvio), e tutto però a scorrere lungo un arco di umorismo sottile che pesca in molte fonti, a tratti anche alla comica del “cinema muto”. Persino con qualche compiacimento da parte dello stesso Mario Perrotta e di Lorenzo Ansaloni che, in perfetta osmosi, si lanciano in un match che non dà tregua. Bravissimi: il primo un Bouvard dall’accento leccese, il secondo un Pécuchet dalla carnosa parlata bolognese. A contribuire al successo anche la brava Paola Roscioli e Mario Arcari che, al pianoforte dilettandosi con le bachiane Variazioni Goldberg, anche lui contribuisce a spezzare l’incantesimo cibernetico.

Vocidallasoffitta.blogspot.com

“Atto finale – Flaubert”. Il male di vivere: le risposte su Wikipedia?

Un cielo stellato e lo schermo gigante di un computer: in scena l’estremo sforzo dell’arte e dell’uomo di trovare un senso alla vita e di annientare la stupidità degli uomini. Con Attofinale – Flaubert, si chiude la trilogia sull’individuo sociale di Mario Perrotta. E si chiude con la messa in scena di un sempreverde baudelairiano mal de vivre che si ripropone in veste contemporanea.

I due personaggi di Flaubert, Bouvard e Pécuchet, si trasformano in figure surreali, panciute, dal volto smaccatamente sbiancato dal cerone che si atteggiano ad attori di comiche del muto. Esuli volontari dalla stupidità del mondo si ritirano in uno spazio vuoto, indefinito, incorniciato da una luce bianca che li sospende nel tempo e nello spazio. Si lanciano nell’impresa impossibile di trovare un senso all’ esistenza. E lo fanno attraverso la tecnologia. In un mondo in cui ogni dubbio sembra trovare soluzione su internet, in cui anche la solitudine pare trovare rimedio attraverso un social network, Bouvard e Pécuchet si illudono di poter trovare sul web le risposte. La loro ricerca condotta con metodo scrupoloso e scientifico salta da un argomento all’altro sviscerando ogni moto dell’animo e cristallizzando qualsiasi sensazione in una definizione di Wikipedia .

Da subito lo spettacolo è un susseguirsi simmetrico di tentativi e fallimenti. Di entusiasmo e disillusione. E così i due, dopo una fiduciosa altalena di ricerche e di scoperte, devono prendere atto di volta in volta dello scollamento tra cose e parole, dell’impossibilità di una comunicazione diretta, dell’ immaterialità della fede, della relatività dell’essere, del piacere effimero del sesso e dell’amore carnale, dell’impotenza di fronte alla solitudine e dell’ impossibilità persino di darsi la morte.

A fare da contraltare ai fallimenti dei due protagonisti, due personaggi speculari: Il muto e la muta. Capaci di comunicare pur senza usare le parole e di opporre alla pesantezza prosaica di Bouvard e Pécuchet la leggerezza della poesia, i due sviluppano una rete di azioni sceniche che scandiscono drammaturgicamente i vari segmenti della scrittura. Le variazioni Goldberg suonate dal vivo dal muto (Mario Arcari) accompagnano tutti i tentativi falliti dei due protagonisti, opponendo così la bellezza poetica all’ illusione cybernetica. Stessa funzione drammaturgica per la muta che canta Edith Piaf, una incantevole Paola Roscioli che esibisce doti da mimo elegante e una voce delicatissima.

Il nodo cruciale dello spettacolo arriva quasi alla fine, quando si apre un varco tra le due coppie e tra i mondi di cui sono emblemi. Con una singolare recita del Canto Notturno di Leopardi, incorniciata da un cielo stellato che si riversa in tutta la sala, Bouvard e Pecuchét riscoprono la bellezza della poesia individuando in essa una possibilità estrema di salvezza. Possibilità fallita. Nel mondo degli stupidi non c’è spazio per la poesia. I due protagonisti , stanchi, rimandano all’indomani le loro ricerche. Perché nella ricerca e nell’arte risiede l’ultimo baluardo della poesia.

Bravi Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni che hanno reso efficacemente il senso clownesco e la goffaggine grottesca dei due personaggi pur restando per la maggior parte del tempo seduti. Geniale la scelta di un tono generale polifonico che alterna momenti drammatici ad altri più scanzonati. Esteticamente piacevole anche l’impasto vocale formato dalla croccante parlata leccese, dal pastoso bolognese e dal fluttuante francese della Roscioli. Nel complesso, un lavoro ben riuscito, che ha concluso degnamente la trilogia valsa a Perrotta il premio speciale Ubu 2011.

Corriere Nazionale

Google Dio dei Tempi Moderni dei nostri Giorni infelici

“Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?” (Giacomo Leopardi, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”)

Le armi di informazione di massa sono i libri. I volumi, l’inchiostro, la parola scritta che dura e resta e rimane nel tempo. La conoscenza, potremmo dire sintetizzando. Nell’evoluzione a tre strati sull’uomo del nostro tempo, Mario Perrotta (progetto per il quale si è finalmente meritato l’ultimo Premio Speciale Ubu) è passato prima da un Moliere dell’uno contro il Potere che assorbe e schiaccia, ad un Aristofane d’avanspettacolo filtrato dal tubo catodico, fino a questo Flaubert, l’“Atto finale”, in tutti i sensi, senza ritorno, dell’uomo che, resosi conto dell’impossibilità di vivere in mezzo agli altri ed alla loro stupidità, nell’intima comprensione definitiva della sua inutilità e idiozia di fronte al grande ammasso di scibile, rifiuta l’osmosi e l’apparentamento con la società, contrae se stesso, si imprigiona in uno studio matto e disperatissimo, autoemarginandosi in un eremo fatto di notizie e documenti, per quanto dentro vi sia l’infinito però pur sempre materia morta. L’illusione faustiana risulta carta straccia, lettera inevasa, insoddisfazione estrema. Sapere di non sapere non è soltanto un filosofeggiamento vacuo. Saranno stati i libri o il mio provincialismo, sputa Guccini nella sua “Avvelenata”. Avvelenati, ed arrabbiati, ma con la classe dei principianti e l’eleganza propria degli sprovveduti che agiscono senza veder bene ed inquadrare l’occhio del ciclone, sono i nostri due, Bouvard (Lorenzo Ansaloni dagli assoluti tempi comici e surreali) e Pecuchet (lo stesso Perrotta stralunato nella sua traduzione salentina onomatopeica ed ingarbugliata, leggero e tragico sguardo), dall’omonimo romanzo rimasto incompleto, causa decesso, di Flaubert che, si racconta, andasse in giro per feste e cocktail, tra salotti e prosecchi, tra foyer e balli a palazzo per assorbire, registrare, ascoltare e poi, una volta a casa, trascrivere le frasi fatte, il trito, le convenzioni convenienti sdoganate, quella patina di superficialità fatta passare, a suon di risatine e gomitate, per vezzo, per movenze e mondanità, quindi parente, seppur alla lontana, dall’essere di moda, di tendenza, ed in qualche modo essere arguto e pseudo intellettuale. Forse Flaubert si è rovinato gli ultimi anni della propria vita in un assurdo gioco, a perdere, con il proprio tempo, in un collezionismo che l’ha ucciso. Tra guardie, chi controlla, e ladri, chi cerca il pertugio ed il cavillo, sono sempre i secondi a farla franca. L’indignazione per la stupidità del proprio tempo a volte non serve. Quindi, pensano i nostri Candide, meglio l’autoesclusione. In una trasposizione moderna al posto delle volgari pagine, dei tomi desueti, delle copertine ingiallite, ecco tastiere, messe al collo come gioghi di buoi o come medaglioni, come collari e guinzagli legati alla cuccia, catene di schiavi di cotone o come gli orologioni che portavano al collo i Public Enemy negli anni ’80, e computer, pc sempre accesi e connessi. Tutto intorno a te. Nel grande schermo sul fondo corrono migliaia di pagine, Google, Youtube e Wikipedia sono ormai i nostri Dei e salvatori, risolutori di ogni dubbio, di ogni suspense, di ogni punto interrogativo. Potremmo ricorrere alla parodia dell’evoluzione dell’Uomo che da cavernicolo, prima lascia la clava, poi si erige su due zampe, ed infine si mette seduto, gobbo e ricurvo, davanti ad un computer. Lì, nella virtualità, c’è la salvezza, la risposta ai quesiti (anche Amleto si sarebbe risposto testé), il grande oracolo che benedice, assolve, rassicura, perdona, che ci chiama come sirena, dal quale dipendiamo come droga. I nostri due, dalle facce imbiancate come fossero appena usciti dal baule dei sei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, ricordano celebri coppie beckettiane, Ham e Clov di “Finale di partita” per l’attaccamento accanito l’uno all’altro, oppure Vladimiro e Estragone di “Aspettando Godot” per l’ingenuità cocciuta. Sono due provincialotti che non si capiscono, fallaci e sbagliati che confondono, illusi che credono di aver afferrato, quando invece hanno frainteso. Prendono le classiche lucciole per lanterne. I qui pro quo sono il pane quotidiano della drammaturgia: ecco che spuntano paragoni con Totò e Peppino come con Benigni e Troisi, l’Armata Brancaleone, o pezzi epici di commedia all’italiana. Sono stupidi ma non fessi, due soliti idioti che commentano il loro “rapimento” registrando tutto in comunicati, (richiamano alla mente il caso Moro), da diffondere ad una nazione che non li cerca, che non li piange. Ed il tempo passa (si arriva fino al 2065) come se niente passasse, come se nulla mutasse. Sono chiusi in un buco a cercare il bandolo della matassa, in poche parole la soluzione alla felicità. Avevano paura del reale, ma il virtuale è ancora più spaventoso perché apre voragini infinite di conoscenza, abissi di ignoranza impossibili da colmare. Come fare per “risolvere questa belva di vita”? Per tenerla a bada non basta studiare, apprendere. Bisognerebbe vivere. Ma l’uomo è finito. Ma ormai non basta più nemmeno quello. Ci vorrebbe un’altra vita, stonava Battiato. E’ la mania di voler controllare, comprendere ogni sfaccettatura, catalogare eventi e memorie, storie e accadimenti che sposta la vita vera, il presente, sempre un po’ più in là, rimandandolo in avanti, ad un futuro prossimo. In qualche modo la loro sete di conoscenza ci riporta al Frankenstein, alla costruzione di un uomo nuovo, di un contenitore più ampio di informazioni da elaborare. Vista l’impossibilità fisica della procedura, nonostante l’innalzamento dell’età media, l’uomo avrà sempre più bisogno delle macchine, sentendosi sempre più solo e stupido quando non sarà possibile utilizzarle. Un cane che si morde la coda. Perdenti nel grande mare delle notizie, sconfitti dall’ammasso abominevole di dati. E alla fine “le parole non vogliono più dire niente”, sono state svuotate dei loro significati. Tutto è destinato a scomparire. La Logica, la Filosofia, la Dialettica, nemmeno la Fede servono più a decodificare, a decifrare, a sciogliere i nodi. La vita, per renderla più semplice, è diventata più complicata, illeggibile. La loro sconfitta è l’aerofagia che li colpisce e li affligge alla visione di X Factor, di grandi centri commerciali assaltati per i saldi o di Miss Chirurgia Estetica. Forse l’arte di salverà, l’arte di un mimo (Paola Roscioli soffice che pennella movimenti e intona celestiale), l’arte del clown, la bellezza del canto, della musica classica. Gli uomini giocano a dadi con Dio. Perdendo.

Klpteatro.it

Il senso della vita nascosto nel web. L’Atto Finale di Mario Perrotta

Terza e ultima parte della “Trilogia sull’individuo sociale” diretta dall’attore, autore e regista leccese Mario Perrotta e insignita del Premio Speciale Ubu 2011, “Atto Finale – Flaubert” arriva all’Itc di San Lazzaro di Savena (BO), sede della compagnia del Teatro dell’Argine, che è uno dei produttori dell’intero progetto.
Riscrittura in chiave contemporanea del romanzo incompiuto di Flaubert “Bouvard et Pécuchet”, “Atto finale”, che si svolge in un lasso di tempo dal 2010 al 2078, ha in comune con l’originale flaubertiano l’ironia acuta ed irritata dei protagonisti nei confronti di qualsiasi forma di stupidità umana (ridicola e universalmente diffusa oggi come ieri), oltre alla loro scelta di isolarsi dal mondo e di dedicarsi all’impresa folle e disperata di apprendere tutto lo scibile umano.

I personaggi messi in scena da Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, però, si servono, nella loro ricerca di conoscenze scientifiche e filosofiche che diano un senso all’esistenza, degli strumenti della moderna tecnologia: una tastiera del computer appesa al collo, dalla quale è impossibile separarsi, pena il rischio di sentirsi completamente perduti.
I due interpreti, col volto coperto di biacca e indosso logore marsine, si lanciano in frenetiche, ossessive e ripetute ricerche sul web (i cui risultati sono visibili su uno schermo posto al fondo della scena buia e vuota), finalizzate al reperimento di qualcosa in cui credere fermamente, una conoscenza che non può e non deve tradire. Ecco allora accendersi i più fervidi entusiasmi ogni qualvolta i due amici si illudono speranzosi di aver trovato la soluzione a una vita in realtà profondamente irrisolta, in cui si parla in continuazione, senza tregua, solo per riempire un vuoto che spaventa più del rumore assordante, ma rassicurante, di parole insensate.

Tutto inutile. Sembra quasi che il destino di Bouvard e Pécuchet (come di ognuno di noi) sia proprio quello di essere irrimediabilmente scissi, sempre tesi fra il desiderio di elevarsi sopra le bassezze della vita quotidiana (attraverso il sapere, la religione o l’arte) e il bisogno di perdersi o – almeno – di consolarsi nella banalità e nella brutalità di certi rapporti superficiali, sia che si tratti di un’amicizia stretta su facebook che di un rapporto sessuale consumato sul web.

E’ in questo irrimediabile senso di disagio, in questo non poter essere mai del tutto né “individui” né “sociali”, che lo spettacolo rivela qualcosa di profondamente antico e contemporaneo al tempo stesso, che parla alla nostra natura costringendoci, però, a fase i conti col tempo presente.
Nessun filosofema, tuttavia, nella coinvolgente interpretazione di Perrotta e Ansaloni, che si costruisce su una comicità inquietante nella sua purezza, fatta di giochi di parole, nonsense, neologismi dal sapore dialettale e, sempre, il senso di un ritmo dell’azione che deve tornare di continuo su se stesso, all’infinito.

E’ nel guardare ripetutamente i surreali, grotteschi ed esilaranti comunicati video, che i protagonisti hanno realizzato durante il loro isolamento, che emerge da un lato l’inutilità della ricerca e, dall’altro, la fallacità della memoria umana, che non lascia traccia e non insegna nulla: Bouvard e Pécuchet, infatti, hanno costantemente bisogno di riguardare quei comunicati video per tornare col ricordo a tutto ciò di cui si sono occupati, le sfide intraprese, perfino i numerosi tentativi di suicidio, il tutto in una ‘mise en abyme’ visiva e semantica.
Lo schermo posto sullo sfondo, dunque, si fa catalizzatore dell’azione, soggetto attivo che interagisce in maniera decisiva con gli interpreti, non soltanto quando mostra gli esiti delle ricerche su google o mostra le registrazioni realizzate dai due, ma anche quando, in aperta dialettica con la comicità assurda e geniale dell’interpretazione, diventa il luogo in cui si affastellano i video di Miss Chirurgia Plastica o dei provini di X Factor, montati l’uno dietro l’altro senza bisogno di troppi commenti, a parte quell’“è terribile”, che diventa una sorta di leitmotiv dell’intero lavoro.

Figure speculari rispetto a quelle dei due protagonisti sono poi i due “muti”, creature clownesche anni ‘20, impersonate da Paola Roscioli (che, protagonista di preziose e poetiche controscene, sul finale canterà “Et moi” di Edith Piaf) e Mario Arcari (che esegue le Variazioni Golderg di Bach in più momenti dello spettacolo): commoventi, enigmatici ed eterei, i “muti” sembrano incarnare la possibilità di trovare un appagamento alle sofferenze dell’esistenza attraverso la bellezza dell’arte, grazie alla quale riuscire, per un attimo, a dimenticare se stessi.

Paneacqua.eu

L’abbandono di Bouvard e Pécuchet

Dal romanzo incompiuto di Gustave Flaubert “Bouvard et Pécuchet”, scritto nel 1874 ed edito ad un anno dalla sua morte, Mario Perrotta, della compagnia del Teatro dell’Argine, nata a San Lazzaro di Savena (Bologna) nel 1994, concepisce uno spettacolo, coprodotto in collaborazione con Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, composto da apparizioni e riflessioni da un universo fatto di solitudine.
I protagonisti dell’autore francese sono due impiegati parigini volontariamente segregati in uno spazio non rivelato, mentre nella riscrittura della drammaturgia dell’autore e regista teatrale italiano, sono due uomini del nostro tempo che studiando e indagando il web alla ricerca di soluzioni, sperimentano tutto ciò che possono, per affrontare e chiarire le motivazioni del dolore esistenziale che li attanaglia.
La scena si compone suddivisa in due sezioni: lo schermo e il palcoscenico, due realtà concatenate l’una all’altra, che trasformano l’ambientazione in una doppia dimensione spaziale, nella quale quattro soggetti, due logorroici e due muti, con cerone bianco sul volto, e vestiti con abiti che ricordano quelli felliniani de “La strada”, creano un infinito e ripetitivo alternarsi di botta e risposta.
La loro è una tana, un rifugio o una prigione in cui non manifestano agonismo, piuttosto complicità a volte inconsapevole, che conduce all’immagine talvolta tesa al ridicolo, di un isolamento allucinato che non sarà sconfitto dalla conoscenza.
Nel turbinio di parole e immagini, sottolineate da pagine del web, una figura, che non parla ma canta, mima i tentativi di azione, escamotage, compreso il suicidio, che non troveranno compimento, lasciando tutto esattamente allo stesso punto nel quale il percorso si è originato, e stabilendo, come unica certezza, l’essere emarginati fra milioni di persone.
Il regista chiude così la sua trilogia nella quale ha indagato sull’individuo sociale, partendo da “Il Misantropo” di Molière e proseguendo con “I Cavalieri” di Aristofane, e compone una buona partitura che si fonda sull’attesa di qualcosa di indefinito, senza affrontare la tematica in modo duro o spietato, ma piuttosto in modo irriverente e goliardico, con la buona prova degli interpreti e il giusto apporto delle musiche eseguite dal vivo, e dei supporti video.

Altrevelocità.it

Atto Finale – Flaubert di Mario Perrotta

Perché sono lì? Che cosa fanno quei due omini col volto sbiancato da un trucco polveroso, gli occhi fuori dalle orbite, due tastiere da computer appese al collo? Se lo chiedono di continuo, dall’inizio dello spettacolo: «Perché siamo qui?» E non è una banale domanda metateatrale, ma una questione esistenziale presa molto sul serio. Bouvard e Pécouchet scivolano fuori dall’ultimo e incompiuto romanzo di Flaubert e riemergono su un palcoscenico quasi intatti. Non sono più i copisti che frugano tra montagne di libri in cerca di risposte, ma due compulsivi internet-addicted che chiedono al grande Google di cercare con loro nei meandri dello scibile collezionato tra Wikipedia e pochi altri siti internet di immediato uso e consumo. Esiste Dio? Esiste l’infinito? Che cos’è l’amore? E la morte? Cucite una dietro l’altra in una drammaturgia prolifica di argomenti, i punti interrogativi sono la guida di queste due menti che abitano in un punto imprecisato del sottosuolo. La loro relazione si consuma in agguerriti battibecchi sull’ontologia di ogni cosa, ma soprattutto è una gara di fiducia e affetto reciproco.
Si può dire che assomiglino a Hamm e Clov, a Vladimiro ed Estragone, ma sono animati da tutt’altra materia. I nostri due personaggi sono prolissi, collezionisti nati. Accumulano ricerche, le conservano: Bouvard registra in video ogni discussione, così da conservare e monitorare gli step del loro percorso di conoscenza; quando si perdono riavvolgono il nastro e lo schermo al centro della scena rivela l’archivio delle loro discussioni e ci porta sempre più avanti, dal 2012 al 2020 al 2060, presumibilmente i nostri stessi presenti. Da un video all’altro qualcosa cambia, e una volta che è stata confermata l’inesistenza di Dio, dopo una rapida scorsa alle teorie di Einestein, sorge la proposta di Pécuchet: «Non rimane che il suicidio». Ecco che scatta una crisi diversa dalle altre. Bouvard non ammette la sua paura e si rifugia nella chat di Facebook dove ha un solo contatto-amico. Avviene qualcosa di simile a una confessione pubblica sull’insicurezza di quest’uomo, che solo qui si può aprire sinceramente per ragionare lucidamente mediante un avatar di se stesso con l’avatar di Pécuchet. Superato il panico, due cappi cadono dall’alto, la testa si immerge nel nodo scorsoio, ma l’atto mortale non si compie. Accanto a loro dall’inizio della scena stanno due figure mute (lui a suonare il pianoforte, lei a mimare pensieri) che improvvisamente intervengono facendo ripartire il video-archivio: la scena a cui abbiamo appena assistito dal vivo esisteva già in chissà quale anno passato, ripresa più e più volte. Scopriamo allora di essere nel mezzo di un ciclo infinito di scoperte e smentite, e i nostri protagonisti altro non sono che dei recidivi, che affiorano ogni volta dalla stessa superficie dello stesso dibattito sulle stesse domande sugli stessi argomenti.
Atto finale – Flaubert di Mario Perrotta (regista e attore in scena nel ruolo di Pécuchet con Bouvard interpretato da Lorenzo Ansaloni) è la descrizione iperbolica e grottesca di un’attitudine contemporanea: un’interfaccia media per noi la relazione con altre persone e con la realtà; non serve abitare il mondo per conoscerlo, è sufficiente studiare i link tra un oggetto e l’altro per verificare se una cosa è vera o per incrementare la propria esperienza personale. Durante lo spettacolo si ride, i due attori forzano senza pudore i limiti intellettuali di questi soggetti, l’evidente inadeguatezza che li ha portati lontani dalla società da cui ancora giocano a nascondersi. Solo a tratti i tempi si dilatano e il ritmo si spezza, interrompendo una più ingegnosa frenesia di parole o la nevrosi degli sguardi insonni.
Ma da questo sigillato bunker ecco che uno spiraglio si apre, senza contraddire il nichilismo di cui i due personaggi sono animati: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,/ silenziosa luna?» non è solo la citazione del poeta del pessimismo cosmico, ma anche la visione improvvisa e luminosa del fuori. Questo esistente sarà anche pregno di stupidità e miseria, ma forse è ancora importante sbirciare fuori dalla finestra, sembra sussurrare Perrotta in un attimo, per non perdere di vista ciò che ci circonda, per non rinunciare a coltivare in mezzo agli altri le proprie domande. O per ricordarsi, almeno, che è possibile farlo.
Atto finale – Flaubert (2011) è il terzo capitolo della Trilogia sull’individuo sociale insieme a I cavalieri – Aristofane cabaret (2010) e Il Misantropo (2009) da Moliére; per la sua Trilogia Mario Perrotta ha meritato il Premio Speciale Ubu 2011.

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Con

Una stanza buia. Pian piano si accendono le luci e vediamo due personaggi seduti di spalle che guardano uno schermo gigante. Vogliono scoprire la ragione della loro esistenza. Eccoli qui, Bouvard e Pécuchet in versione moderna, interpretati da Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, così come ce li descrive Perrotta stesso nella sua riscrittura dell’omonimo romanzo di Flaubert. Due uomini che vivono da decenni un isolamento volontario, in fuga dal mondo. Non hanno alcun contatto con l’ esterno, se non tramite Internet.
Durante lo spettacolo ci accompagnano una serie di battute veloci, taglienti, comiche, ma allo stesso tempo terribilmente drammatiche, perché Bouvard e Pécuchet rappresentano il nostro presente, ma anche il nostro futuro (il loro isolamento parte infatti dal 2010, ma arriva fino al 2078).
Rappresentano gli uomini di oggi completamente alienati dal mondo reale, un mondo dove non esistono sensazioni e rapporti autentici, dove ogni azione si ripete ogni giorno alla stessa maniera.
Digitano ossessivamente sulla tastiera, che hanno come protesi attaccata al collo, parole e parole, per cercare di imparare nozioni di medicina, di astronomia, di biologia, continuamente alle prese con i loro bislacchi esperimenti, tutti non riusciti, compreso quello del suicidio.
Ecco l’uomo del presente e del futuro, capace allo stesso tempo di sapere tutto e non sapere niente, solo e smarrito davanti a un mondo dove l’aspirazione maggiore di una donna è diventare Miss Chirurgia Estetica.
All’inizio sullo schermo, poi in un angolo del palcoscenico vediamo anche il Muto e la Muta, i due servitori, interpretati da Mario Arcari e Paola Roscioli.
Essi in realtà parlano un altro linguaggio, fatto di gesti, di sguardi, di sensazioni reali e di contatti fisici. Un linguaggio che ci appare meraviglioso sulle note delle variazioni di Goldberg di Bach, ma che i nostri personaggi non comprendono, completamente catturati dal loro mondo virtuale.
E non comprendono neanche alla fine, quando Paola Roscioli tenta invano di spezzare l’incanto nel mondo del Web cantando Edith Piaf. Tutto si dissolve in un’orchestra di flatulenze, simbolo della disgregazione e del dissolversi della realtà umana.
In Atto Finale – Flaubert , ultimo capitolo del suo progetto Trilogia dell’individuo sociale (composto anche da Il Misantropo – Molière e I cavalieri – Aristofane cabaret), Perrotta non vuole darci consolazioni. Ci mette davanti alla realtà nuda e cruda, in cui l’illimitata stupidità umana e il nostro chiuderci in una realtà virtuale composta solo da rapporti e sensazioni fittizie stanno prendendo il sopravvento, portando alla nostra completa disgregazione.
Un’ ottima interpretazione di Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, in completa osmosi, abilissimi nel ridicolizzare o drammatizzare gli aspetti più decadenti della vita e del pensiero contemporanei.
Uno spettacolo capace di farci riflettere, poiché al peggio non c’è mai fine, e i valori veri e autentici del vivere umano sembrano ormai letteratura.
Una riscrittura originale e profonda, dall’impatto forte, tale da meritare il prestigioso premio UBU 2011 per l’intera trilogia.

Bolognateatro.it

Atto finale – Flaubert

Sono stato a vedere questo spettacolo con un amico, e alla fine, come i due protagonisti, abbiamo discusso molto (senza concludere nulla) sulla filosofia e sulle tematiche proposte da Perrotta nel testo. Ecco che anche noi siamo diventati due perfetti Bouvard e Pecuchet. Sì perché è questo il punto: come i due protagonisti, si può discutere e continuare ad approfondire finché si vuole la filosofia, ma non si arriverà mai a una conclusione vera, definitiva. E il rischio è che discutendo e approfondendo troppo si perde di vista la vita reale, vera, vissuta. Prendendo spunto da un romanzo di Flaubert, Perrotta chiude così la sua trilogia: con questo spettacolo molto divertente e intelligente, due qualità che non è facile mettere assieme. I due protagonisti sono appunto dei moderni Bouvard e Pecuchet che si chiudono in una stanza, si isolano volontariamente dal mondo, per iniziare a studiare e capire il perché delle cose. La filosofia è propria dell’uomo e la sua storia ci insegna che non c’è un punto di arrivo, ma solo delle tappe. Questo è quello che accade ai protagonisti, che confondono le tappe con i punti di arrivo ed entrano così in un loop continuo di pensieri e azioni che si ripetono senza che in realtà essi se ne rendano conto e senza arrivare mai a una conclusione sula domanda iniziale: perché abbiano deciso di isolarsi dal mondo. Ed è qui che si voleva arrivare: la trilogia di Perrotta voleva proprio indagare (senza rispondere, ma solo stimolando la riflessione) l’uomo e i suoi rapporti interpersonali. L’uomo è un animale sociale? L’autore e i suoi spettacoli non danno la risposta, propongono però punti di vista, utili allo spettatore per riflettere ed eventualmente rispondersi, sapendo però che ogni risposta può non essere quella giusta. Va bene così: proprio perché come dicevamo certe domande continueranno ad avere risposte che porranno altre domande, e così via.
Infine, Perrotta merita il premio UBU 2011: ve l’avevo detto che è bravo. Bravi anche gli attori e il musicista, uno spettacolo riuscito.

AndriaLive

Grande successo ieri per lo spettacolo di Mario Perrotta

Tratto dal romanzo incompiuto “Bouvard et Pécuchet” di Flaubert, lo spettacolo chiude la trilogia teatrale “sull’individuo sociale”.
Al centro della rappresentazione l’uomo, la sua solitudine e lo “sforzo di esserci, più ridicolo che mai”. “Atto finale: Flaubert”, a partire dai due personaggi “flaubertiani” Bouvard e Pécuchet, mette in scena l’Uomo e la sua affannosa ricerca del significato della vita, una “bestia di vita” ripete Perrotta in scena, rammentando tutto il passato che scorre su un maxischermo sullo sfondo del palco.
Seduti su due sedie girevoli, i due personaggi, con una tastiera da computer appesa al collo, possono viaggiare nel tempo utilizzando il più moderno mezzo di comunicazione: internet. Lo cercano su google un significato alla vita governata da “finitezza” e dall’”imperfettissimo intelletto umano”; attraverso una comunicazione a portata di click, Perrotta porta in scena la globalizzazione post moderna, inserendo i due personaggi in un non-luogo del tutto attuale, dominato dalla velocità di informazione, dalla superficialità dei contenuti e anche dalla vacuità comunicativa governata da Facebook, il social network a cui soccombono anche Bouvard et Pécuchet per soddisfare un “bisogno di amicizia”, scegliendo spesso la comunicazione virtuale e solitaria della chat, a quella reale, più difficile.
Solitudine e smarrimento. E’ questa la condizione dell’Uomo rappresentata in “Atto finale: Flaubert”. Disorientamento in un mondo che non si riesce a comprendere e di cui si rifiuta l’effimero, la vacuità, l’”indecenza” e la “stupidità”; un mondo in cui l’unica verità sembra essere quella proveniente dall’esterno, dal luogo più immateriale ed effimero esistente: quello telematico, ottenendo come unico risultato la certezza di essere soli.

Comune di Andria

Il Festival Castel dei Mondi chiude con due prime nazionali

Domenica 4 settembre, ultima giornata della XV^ edizione del Festival Internazionale ‘Castel dei Mondi’ di Andria, con la rappresentazione delle due attesissime prime nazionali:
Alle 20, presso l’Auditorium Paola Chicco, la compagnia Santo Rocco e Garrincha ha presentato la loro nuova produzione dal titolo Tre. (…)
Alle 22, al Palazzo Ducale, la Compagnia dell’Argine ha presentato in prima nazionale, Atto Finale – Flaubert da “Bouvard et Pécuchet” di Flaubert, con cui Mario Perrotta, dopo i successi del Misantropo di Molière e de I Cavalieri di Aristofane, termina la sua trilogia dedicata al sociale.
Un progetto triennale – “Trilogia sull’individuo sociale” appunto – incentrato sulla rilettura di questi tre classici, in cui il tentativo è di indagare sulle paure, le ansie, le frustrazioni di un modello sociale, quello occidentale, in apparente caduta libera verso la sua disgregazione.
Lo spettacolo, arricchito dalle musiche eseguite dal vivo da Mario Arcari e dall’incantevole mimica e voce di Paola Roscioli, vede in scena Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, che rappresentano, nella riscrittura di Perrotta, due uomini del nostro tempo che, chiusi volontariamente in uno spazio non meglio identificato, tentano l’impresa impossibile: affrontare e risolvere il dolore esistenziale che li assedia studiando e indagando il web alla ricerca di soluzioni, per superare quella solitudine di due uomini che, pur essendo in due, sono soli. Soli come siamo tutti noi, in mezzo a milioni di persone, chiusi e soli davanti a una vita che ci tocca di vivere. Così, il geniale Mario Perrotta, chiude la sua trilogia, e dopo lo scontro frontale di Misantropo tra individuo e società e dopo il disastro sociale de I Cavalieri, si sofferma sull’Uomo, solo di fronte a se stesso, nel titanico sforzo di esserci, e di trovare una via d’uscita.

Brescia Oggi

L’Atto finale di Mario Perrotta si getta nella realtà virtuale

Grande successo all’Odeon di Lumezzane per Mario Perrotta in «Atto finale: Flaubert». Tratto dal romanzo incompiuto «Bouvard et Pécuchet» dello scrittore francese, la piéce chiude la trilogia teatrale «sull’individuo sociale», un lavoro di ricerca sul ruolo dell’uomo nella società occidentale «disgregata». In questo «Atto finale» lo stesso Perrotta veste i panni di Pécuchet, mentre Lorenzo Ansaloni è Bouvard. Al centro della rappresentazione l’Uomo e la sua affannosa ricerca del significato della vita (una «bestia di vita» ripete Perrotta in scena, rammentando tutto il passato che scorre su un maxischermo sullo sfondo del palco). Se lo chiedono di continuo, i due bravissimi attori, dall’inizio dello spettacolo: «perché siamo qui?». Il mezzo per cercare risposta altro non può essere che internet. Seduti su due sedie girevoli, i due personaggi, con una tastiera da computer appesa al collo, chiedono a Google di cercare con loro la risposta a quella che – citando la «Guida galattica per autostoppisti» di Douglas Adams – potrebbe essere la «domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto». Esiste Dio? Esiste l’infinito? Che cos’è l’amore? E la morte? Perrotta porta quindi in scena la globalizzazione post moderna, inserendo i due personaggi in uno spazio indefinito e indefinibile, dove non si può essere immuni neanche a Facebook, specchio di amicizie sempre più virtuali, in un mondo lanciato verso la dissoluzione dei legami reali. Solitudine e straniamento: è questa la condizione dell’Uomo moderno. Disorientamento in un mondo che non si riesce a comprendere, nel quale l’unica verità sembra essere quella proveniente dall’esterno, dal luogo più immateriale ed effimero esistente: quello telematico, ottenendo come unico risultato la certezza di essere soli e soprattutto «Sconfitti nella parola, sconfitti nel silenzio», Calorosi applausi per i due interpreti.

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